|
|
Narrativa
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi in prosa inediti,
purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
Elogio al
portafogli di Giuseppe Costantino
Budetta, L'uovo
di Natalia Radice,
La spia di Lorenzo Spurio,
Ho insegnato che
lontano, al di là di quei monti, c'è Firenze
di Anna Maria Volpini
Poesia italiana
Recensioni
In questo numero:
- " Mai andare a Sighet" di LMS e CVX
- "Sempre ad Est" di Massimo Acciai,
recensione di Lorenzo Spurio
- "Le stanze del cielo" di Paolo Ruffilli,
nota di Enrico Pietrangeli
- "Luna di Lenni" di Berardi Emanuele
- "Antidoti umani"di Francesco Verso
- "Il diario di Ombrallegra" di Dimitry Rufolo,
nota di Massimo Acciai
Articoli
Letteratura per la Storia
Interviste
|
|
I
Con la mano che afferra
il freddo anello d'acciaio
del tubolare,immobile,
assorto con la sigaretta
tra i denti scivolato (sempre
muto) negli squallidi blue jeans
come sdrucito è il mondo
che scompare a ritroso
del lancio innarestabile
dell'autobus impazzito
nel soqquadro della dolente
strada in bianco e nero,
tra le lunghe mani oscure
che cadono dai flebili e timidi
lampioni tentando in vano
di abbracciarne il corso,
resto muto,indifeso
incerto sul da farsi del tempo
che mi ha avuto, che si è
concesso allora come adesso
vigliacco e umile senza rispetto
alcuno e che mi lascia da solo
in questa folla inestricabile
di profili, di volti, di case
pallidi come la luna
che nuda appare, indomita
su questi prati d'erba ferita.
Un presente così grande
in cui trovo asilo, ferocemente
attratto dalla tua ossessiva
bellezza che mi trascina
negl'inferi del dio padre
giornaliero. Giorni intensi
di appuntamenti mancati,
di occasioni lasciate al mio
dire incessante di parole mute
e piante. Ma quanto dura,
quanto può durare questo
questo amore? Tenero e feroce
lungo quanto un giro senza
sosta di un isolato, di una sola
notte o di lei la premessa
subito dopo il giorno,
quando dimentico, come me,
si lascia trascinare dagli ardri
incessanti e spasmodici,
si lascia trascinare dalla gioventù,
dal sapore insipido dei
propri giorni a venire.
II
Resto allora in asolto
del vento identico,
in piedi, tra le macerie,
gli scarni resti nell'orto
geometrico di arbusti,
di sabbia e limo coperto
dal languido cielo
oramai riverso sull'acume
della terra rimossa,
a brandelli d'erba recisa
e di fiori marciti.
Un vento identico,
forse al giorno prima,
di continue stelle che
si svelano di sguardo
in sguardo assai lontane
nel biancore torrentizio
del Tronto cui tu hai
strappato le storie
per sentito dell'Appen-
nino, delle pallide e deso-
late crepuscolari lande
del mio crudo venire.
Fu allora che feci il patto
col diavolo, sfidandone
la mia stessa esistenza
per questa fosforsente
coscienza. Ma ne è valsa
la pena? Ne è valsa la vita?
Resto allora all'incirca
come prima, immobile
e innapparenza come
il troco del corbezzolo
sull'argine estremo della cava,
sul dorso nevoso del poggio
sbancato, qusi solo, quasi
niente..... quasi d'io!
Sudicio d'animo e d'abito
nell'antro semibuio,
lungo le mura scalcinate
della rimessa, affollo lo spzio
delimitato dal canestro per
afferrare le briciole che nevicano
da sopra sul suolo umido di
rena e cocci di vetro.
Resto indomito a contemplare
la tua bellezza, nel leggerti il volto,
nel chiamarti per nome, la gioventù
che il delirio del tempo ti offende,
ti deride come fa a questi prati
spalancati sul niente!
Trascinato da spasmi, da ardori
oltre la corda tesa dell'etere
di questa vita che mi è
quasi prigioniera nell'averti
nell'istante cui ti scorgo
per spararmi al cuore,
per cucirmi l'anima
per non saperti altrimenti
se non che amica, che come
fraterna figura indossa
gli sozzi abiti di una donna
in odore di sesso e d'aventure!
Quelle stesse avventure
notturne che tu vivevi
vagabondo di usci e di macia-
piedi nelle sere spoglie di luna
fervito e infelice come un giostraio
sul greto peccaminoso,
malsano del Tronto spumoso
dalle deserte magre tardo estive,
senza più vesti a cercarti nel corpo
il corpo identico e feroce, quasi
sublime, di quella parte
cui a stento si dice, si confessa
agli occhi assorti, alla mente
umida di pensieri del compagno
della magra e pur piena festa.
Certo il fiume! Di scabri
torrenti è fatto il nostro affermarsi,
se non di strozzati e contemplati
versi e da una foce senza-
e mai più può esserci,
almeno tu non lo voglia-
precedenza che rimane una
narrazione nel preludio
di una storia tra cielo e mare,
tra spoglie dune d'ortica e rosmarino,
di rena spoglia e bianca
all'albeggiar della luna tra le onde.
Un amore clandestino e senza
patria, vissuto nello scandalo
metropolitano e terrestre, offeso
dal senso mai compiuto del suo
rimanere seme nel ventre che non sa
esploderlo alla luce del giorno.
Un amore senza affetto,
della mente cresciuto tra le strade
gelate di novebre, tra i corridoi
delle stazioni, tra gli anfratti
degli inferni intestini e prigionieri,
come noi del resto, allo spalancarsi
di questo assurdo tempo, di questo,
se non altro, infinito e amato presente!
III
Venosa addormentata nell'apparenza
pallida di nastri festosi e di lampi
contrastati di luce sulla piazza
adornata, ma disadorna nell'asciutta
ricchezza dello spazio geometrico
di pietra serena; aperta al mondo
nell'argento che spiove sotto un cielo
cieco e ceruleo che la culla!
Placida e smorta nel pallore
di una vita presente alberga tra
le braccia bagnate delle discoste
ascese di campi pettinate dal grecale,
dalle possenti e fragili sponde,
spoglie d'arbusti dai rami morti,
dello oscuro scorrere dell'Ofanto
nel crudele giorno d'estate.
Un sottilissimo gemito farfuglia
tra gli alberi e i filari d'aglianico
il mito moderno spoglio e immemore
d'ogni amore precedente raduna,
in un raccogliersi continuo di balsami
e anfratti, le vesti corrotte e ferite
dello sciagurato Luigi. Sciagurato,
volto coraggioso, ma non guerriero,
non eroe, d'improvvise sommosse,
di intestine e fervide rivolte
di fame che a quel pane biondo
gli erano quasi ignote, straniere.
Distesa e addormentata nel timore
del vento che scuote gli istinti
femminei dell'amato presente
che appare ancora intonato nei versi
coscienti della bellezza del semplice
e passato, ma non dimentico, Orazio.
Ed eccoci allora alla nuova scienza,
alla coscienza che nutre in se ogni
disperanza che in dietro si lascia
l'acqua chiara e avanti trasporta
quella scura del ricordo, delle
avventure notturne tra le umili
e spioventi palanche dei prati
che sanno di voli, di esodi e di cieli,
di continui branchi,di fieno appena reciso,
di terra rimossa.Un viaggio continuo
e in arrestabile arreso all'ombra del presente,
consapevole di dimenticare
gli amici, i compagni del cuore
e le miti stagioni che più torneranno.
Un viaggio a prua dell'infelice
amore che sbanca intere terre,
sbrana l'animo che si scioglie
in un silenzioso pianto di giorni
di foglie rampicanti nella verticale
ascesa delle facciate sconnesse,
scalcinate e bianche sino alle aperte
terrazze, alle altane assolate,
al seno nudo di giardini pensili
e dalle lunghe e oscure ombre.
Ombre incrociate nelle strade
del giorno immobile di sole e di nubi.
Ma quando potrà finire questo viaggio?
Quando l'anima darà cenno di mentire?
Di non avere più il coraggio giovanile
di andare oltre la corda tesa dell'aria
serale? Tra gli archi bizzantini
degli angiporti appisolati, il cui
sonno angelico interrompe la violenta
e sinistra luce algebrica dell'accecante sole?
Tutto questo, in toto, porterà la luna
e l'etereo dintorno morirà lento,
acquietandosi di vita presente sulle
scalcinate anse degli orti strappati
all'umile cielo pronto a discendere.
Sbalzi d'umore di case a ricorrersi,
di balconi affacciati su l'universo,
affidati a pochi passi, ad un braccio
di spazio urbano dove poco più là
inconsapevole si rischiara il giorno,
ristora la mente, l'aria si fa chiara,
e i poggi sbancati dal tempo, dalle
arenarie ferite dalla smorta luna,
quasi smarrita e incerta, avanzano
verso il lenzuolo bianco della
disseppellita Venosa addormentata.
Tempo a contarsi, questione di ore
tutto si ricompone sul modo e il
fluire lento e incestuoso dell'Ofanto
offende il ricordo della notte diradata,
e poi il tuo volto che imprimo nel
cercarmi come fosse una scrittura
silenziosa ma densa come il sangue
di questi vitigni a perdersi nel coprire
i fertili ma crudeli seni di qesta terra nuda.
IV
Rimane pur sempre l'ossessione,
un credo silenzioso e invadente,
il presente come istante che vivo;
e mi appari spoglia di passato,
scivolata anche tu nei jeans
sdruciti, con la sigaretta e il berretto,
prepotente e impossibile nell'averti.
Ossessione che sul corpo mi lascia
i segni indelebili della malattia,
del disgelo sacro d'ogni illusione
che non riesco a realizzare se non
nell'istante in cui appaio in piedi
a sfidare quel briciolo di vento
che muta la prospettiva, dirada
i fantasmi feroci, ogni risposta,
sgombra lo spazio scorto per ogni
dove io possa casualmente guardare.
Ed è una seduzione convinta,
un riaffermarsi feroce non dell'essere
ma dell'insieme della cosa che sono.
Allora mi si apre davanti un ventaglio
di piazze che attraverso da solo
nell'ora crudele del giorno, spiazzi
affollati d'orchestrali, di festoni,
una pioggia di costellazioni, di luci
forti al cospetto del mio sentire.
Ma è solo un istante? Sì forse
solo un senso di vita minacciato
comunque dalla morte che so
mi strapperà pur non volendo
senza possibilità, determinata.
Un non essere sottile e crudo
come uno sputo sulla cenere
sparsa dei prati di questa pasqua
senza resurrezione. La passione
poi me l'hanno data poco più là,
dove gli alberi si discostano dal
sentiero di pini marittimi, di
odorose e nauseanti siepi d'erba
selvaggia e di liquirizia. La croce
per me è stata la terra, disteso
come ero a scrutare il pallore
del cielo del quinto giorno.
Al sabato già putrivo di speranze,
la domenico sapevo di sepoltura.
Per afferrare il presente - ambiguo,
il mio carnefice senza soluzione-
tra le sepolture ho vagato più giorni
ad osservare le timide fiammelle
che quei corpi sprigionavano,
senza pudore. Di loro ne ho scrutato
l'essenza, il lezzo profumo mischiato
agli incensi, il nutrirsi continuo
e famelico dei vermi; là poco
lungi la città di luci e di strade
tremanti di rumori, di officine,
di saracinesche abbassate nel pre-
festivo e attonito giorno ormai smesso.
Elsa, Elvira, la Patty, e poi Dora
che sì batteva in casa, e poi Luigia
e Pierina, la Piera del canto in fondo
alla via. Lasciate là a dormire
solo perchè furono puttane,
si erano date agli ardori, alle
scivolose rivolte del cuore,
senza mai donarlo, agli innesti
di corpi in attesa di altri corpi,
frementi nel teremito del desiderio
e offesi, dagli abiti sporchi di incoscienza,
dalla stessa vita che riponevano silenziosi
tra le braccia, sui seni di queste donne.
Loro furono un continuo ricercarsi nel
presente, un abbandono costante sull'arena
applaudita e insanguinata sugli ultimi
passi contemplati dello spettacolo.
Dell'evanto nell'aria perduta della sera,
oramai ridotta a brandelli e afosa nello
sciame d'alberi lunghi, di flebili lampioni,
nella smessa e tarda festa di chi rimpatria
col cuore caldo dopo un giorno di fatica.
Impavido mi aggiro ma muoio o forse
rinasco subito nel momento in cui rinnego
non solo te ma la passione che mi sbrana
nell'amarti, che mi sbanca il di dentro,
che mi ammala e mi preclude il pensiero,
il futuro avvenire e che balena ai primi
accenni desueti di un alba celeste.
V
Stracci bagnati fanno di te una scultura,
non potrebbe essere altrimenti se non
spoglia da ogni remora mi inchiodi
a contemplarti. Ma non è il senso
dell'idea che feroce mi fa ammalato,
ma realmente te, il tuo essere leggera,
un prato disteso nello sfumare della luce.
La notte scende adagio sul mondo,
nel giardino ordinato di piante e di striduli
cinguettii di aperti stormi nell'aria buia.
Lentamente cala il velo sottile che svela
la tua femminile mascolinità, il tuo
fervore: antico d'albe e giorni vissuti.
Non sono ebete per l'idea, ma per il tuo
essere fluido come fiume a filo di terra,
dalle anse molli ma all'apparenza vigliacco!
Amare è sempre al presente, non può essere
legato ad un futuro, se pur prossimo, e così
in queste bave serali, in preda al dissidio
tra la mente e il corpo,tra le mura molli
di giorni e di scalcinate ferite, mi faccio
da specchio o da scudo immaginandoti
soltanto per schernire ogni velleità.
Forse sbagli, ed errando, confondendoti,
ti fai ancora più dolce amica cara, più
fragile, assumi così tutto il mio dramma,
l'essenza della mia ferita esistenza.
Una ferita non più sanguinante, ma putrida,
di secolari vicissitudini, figlia del destino,
della mia condizione di amico e di uomo,
di un non essere se non una parvenza
d'incendio di cattivi fervori, di umili
e placebi ardori che non scaturiscono
verso un incontro, verso un corpo altro,
disegnato nel buio, fosforescente nel
cosmo interiore, ma reale, all'impiedi
cui si arrende nel momento che lo
sorprendo. Poi del corpo non voglio
saperne il nome, la storia, perchè
la storia possibile è nell'istante in cui
mi si palesa, davanti, e mi si narra
lo squallore che dirada le strade e il mondo
le lontane e assolate spiagge d'oltre oceano.
Del corpo so soltanto - e la mia coscienza
me lo dice- il suo presente che si raccoglie
nei brevi spazi temporali, nel tremito
emotivo che lo scuote nel darsi a me;
di lui conosco solo la consistenza violenta
della luce subito dopo uscito dal tunnel.
Allora un tu non umano ma persona
si incatena come crocifisso al cospetto,
al cucchiaio del letto, per entrare
nel suo universo così semplice che solo
nell'istante della disillusione, della
spogliazione del corpo mi è dato sapere!
Ma cosa conosco? Cos'è il sapere?
Se non un modo di pensare la vita,
la lotta intestina di spassionati amori
che spesso consumo da vorace?
Ora lo so, ora sono cosciente e di
scienza mi ritiro sotto i festoni d'aria scura
che la sera stende, tesi come stracci ad asciugare,
lungo l'orizzonte nel pallore di case,
di orti, di brevi e squadrati rientri,
vivendo il buio attimo di piacere
dello scolo d'amore nei miei jeans
sdruciti salutandomi con un grido;
forse identico al tuo impercettibile,
muto gemito mammifero.
VI
Mi punge la speranza,
quel vitalismo accecante,
il ventre consapevole
di vedere un nuovo giorno
ancora tremante di quella
voglia che nutro nel cuore
nella mente umida,
nell'acume di ordine e passione,
come terriccio smosso
al calar del buio. Un'asilo
desolante, quattro mura
d'aria a distanza di due dita,
e l'assillante tremore mi svela
il tuo respiro, la tua manciata
di giorni e di compagni,
vagabondi tornare sui propri
passi, spogli da ogni
ardore precedente, di ogni
storia per loro senza significato;
di poche raccomandazioni,
di cen rimandati, di scorribande
di rena e di prati.
Sei tu che ti attardi a tornare
allora che disperdi il seme
dell'intelletto e della liberta
dei sensi imprigionati
nelle strette vesti consolatrici.
Quel seme prezioso he ti
fa fragile appena sorseggi
un bicchiere, seduta al tavolo
del bar a discutere sul paese
devastato, smorto, sfollato
nel buio boreale di notti
continue che dio cala
dall'alto per trateggiare
nel silenzio il volto tuo
smarrito come me;
come me che sono una barca
arrenata tra le schiume
del tuo presente, tra la rena
bagnata, tra i cavi
delle violent onde che mi
recidono la strada per Damasco.
Del resto metto in discussione
il rapporto proprio ponendomi
l'estrema domanda che mi assilla,
che mi permettere di vivere
con una certa prepotenza.
Un Amore? Sì un amore
di strade, di interi isolati,
di momenti fugacei in cui,
uno difronte all'altra,
discutiamo del tempo, del proprio
tempo negato, strappatoci
violentemente da pochi,
dalle nostre mani e a quelle
di molti. Anche l'uomo
che si appresta a prendere
al volo l'ultima corriera,
da ubriaco al principio del buio,
forse dopo, che borbotta assorto,
nella sua dignità profonda,
sa raccontarmi molto del nostro
incessante raccontarci.
Mi narra non sapendo dei
mattini immobili d'estate,
dei bar vuoti, dei giorni incerti
d'aprile, degli sfollati ritrovi
autunnali umidi ancora di incontri,
pieni di quella speranza, vivi
nel disamore che prosegue
anche dopo i tardi - oramai
irreparabili- appuntamenti,
spesso violati nel tentativo
aspro di una difesa, nascosti
dietro ad un formalismo senza età
che ci nega, che ti nega ogni offerta,
se pur a parole, in difesa del tuo
essere, della tua anima, del pallido seno.
Ma pur sempre escluso mi ritrovo
in briciole a raccattarmi a manciate
nel desolante ritorno giornaliero,
scivolato nei jeans sempre squallidi;
sdruciti come il mondo che balza
a ritroso sullo stipite della portiera,
lanciando nel vuoto lo strozzato,
pieno grido della tua umana gioventù.
|
|
|