|
|
Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a chiunque voglia
inviare testi poetici inediti, purché rispettino
i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Aurelian Sorin
Dumitrescu, Marius
Viorel Girada, Ioana
Livia Stefan
Recensioni
In questo numero:
- "Introduzione al mondo" di Idolo Hoxhvogli",
recensione di Lorenzo Spurio
- "La setta dei giovani vecchi" di Luca
Rachetta, recensione di Lorenzo Spurio
- "Tredici Rose Rosse" di Francesco Vico
- "Senza Frontiere" di Sonia Cincinelli
- "Ritorno ad Ancona ed altre storie" di
Lorenzo Spurio e Sandra Carresi
- "L'oro e l'alloro" di Cesare Lorefice, nota
di Massimo Acciai
- "Il rosso e il nero della comunicazione" di
Stefano Angelo
- "Graffio d'Alba" di Lenio Vallati,
recensione di Marzia Carocci
- "Codice della felicità" di Paolo Mantegazza,
recensione di Emanuela Ferrari
- "L'Italia meridionale peninsulare nella
storiografia bizantina", di Gennaro Tedesco
Articoli
Interviste
|
|
Nello studio dell'ultimo apostolo
Ad Aurelio l'estate non era mai
piaciuta, delle quattro stagioni preferiva le ultime
due per una serie di ragioni che anche a lui
parevano incomprensibili. Probabilmente doveva
essere una questione di silenzio; l'estate era
l'apoteosi del caos, della confusione e a tutte le
ore. Ragazzi, giovani uomini e poi adulti, e buone
figlie di famiglia soliti erano affollare le vie
maestre del borgo, la piazza madre, dalla quale si
dipartono per mille rivoli, come un albero
gigantesco dai tanti rami, strade e stradine,
vicoli, erte vertiginose verso il basso, lungo il
dorso nudo e senza alberi della cittadina, distesa
come un serpente su di una zolla di creta e
attorcigliato su se stesso. Preferiva l'autunno, era
chiaro, i silenzi irreali, le nebbie alte che, a
lui, davano l'idea remota di un sipario di uno
spettacoletto parigino delle bella èpoque. Stagione
in cui i ricordi cullava nel più remoto angolo della
sua memoria; oramai spoglia di ogni spettacolo, di
caffè affollati, di aperitivi nelle ore tardo
pomeridiane, di notti passate all'aperto cui il
vento pettinava ogni cosa gonfiando di speranza e di
gioia di vita i cuori senza nulla in cambio. Erano
lontani quei giorni. Così come lontana era la ciurma
delle donne amate, dimenticate a Parigi lungo il
corso della Senna, lungo gli champs élisées, sulle
orme misteriose dei Manet, dei Renoire, dei Pissaro,
e poi di Hugo, e Boudelaire, cui era solito, per
abitudine più che per grazia intellettuale,
riferirsi in compagnia di una di quelle fanciulle
sfiorite e senza ombra. Certo, ricordava bene le
letture di Cèline, i primi studi privati di storia
alla Sorbona, i primi interventi pubblicati ora su
questa ora su quella rivista storiografica. E poi si
ricordava Napoli, il rientro in Italia, le nozze con
Assunta, sua moglie dalla quale non ebbe mai figli e
dalla quale rimase vedovo poco tempo dopo, e poi i
ritrovi con gli intellettuali di allora: Croce,
Gentile, e poi ancora la Napoli del Prisco, e del
Rea, la partenope metropoli di bar aperti sino
all'alba e di canzoni, di versi che si scioglievano
come fiocchi di neve sospesi nell'aria. Versi, che
agli altri, sembravano accostare a partiture
musicali, a sciami di note raggruppate tra loro come
interi acini di uva. Tutto passato. Il ritorno al
paese sancì per lui il ritorno alla protostoria,
alla morte, costretto a vivere fin da bambino
quando, sotto la minaccia severe del padre, nella
capanna di campagna ad un paio di miglia dal paese,
dalle prime case che Dio, il suo Dio misericordioso
che secondo lui era al timone della storia e degli
uomini, l'io per eccellenza, lontano da ogni
idealismo di sorta, già Heghel era uno sguattero
buono solo a lavare i piatti in una trattoria di
Berlino, se ne andava a pascolare il gregge su per
le valli spoglie dove solo a luna e il sole vi
restavano a lungo,vi si affacciavano su quei
calanchi di arenaria e di fango, con sempre appresso
un libro e i vangeli, o il libro dei canti canonici
che ebbe a rubare durante una messa in chiesa la
domenica dell'ascensione. Il paese era la morte,
l'incarnazione di ogni quiescenza, la morte
spirituale, la caduta nel tempo - e non apprezzava
Cioran- di un tempo x senza tempo, metafisico, dove
i giorni scorrevano come acqua di fiume in estate:
senza lasciare traccia sul letto sassoso del
medesimo torrente. Se ne stava giorno e notte nel
suo studio, sulla piazza, a pochi metri dalla chiesa
madre, la cattedrale angioina. Nella stanza dove non
entrava un briciolo di luce, uno spiffero di aria
nuova, seduto alla scrivania compromessa da
fascicoli e riveste, da pile di libri da consultare,
da fogli pronti per essere scritti, feriti dalla
punta metallica della penna allo scopo si buttar giù
due righe di appunti ora su quel passo del libro,
ora per la presentazione asimmetrica di un pensiero
remoto, di una osservazione filosofica; anche se per
uno storico è sbagliato dare un giudizio se pur
essenziale ad un evento, lo storico, uno
storiografo, mettiamo anche di quarta categoria,
deve solo limitarsi a storicizzare il fatto,
l'evento in sé, se tanto tanto tenta di giudicarne
l'effetto, la forza cercando di apporvi uno sguardo
filosofico tradisce il suo ruolo o la "missione",
come piaceva raccontarsi Aurelio, commette un
crimine, un incidente mortale; una acrobata che
sbaglia il salto, un funambolo tradito
dall'equilibrio e minacciato dal vuoto. Così, tra
una cosa e l'altra, tra una questione ed un'altra,
passava i giorni e le stagioni, a scrutare con
attenta meticolosità i libri riposti sugli scaffali
della libreria che copriva le quattro mura dello
studio, dell'ufficio della disillusione, come si
raccontava e come definiva agli altri, che raramente
lo disturbavano, se non nell'ora del thé affumicato
che inebriava i suoi sensi rattrappiti sotto l'abito
di lana pesa durante l'inverno, e di velluto
d'estate, a disquisire sul tempo andato, sulla
disillusione, ossia lo scioglimento di ogni sogno
affiorato sul filo della mente, tempo da rapportare
al presente. Ogni tanto era solito alzarsi, scorgere
da dietro le imposte rigorosamente chiuse lo
scenario vagabondo della piazza ampia, lastricata a
schiena d'asino dalla pietra serena, dei ragazzi
sulle panchine a disamorarsi di loro e del tempo, a
tessere storie umane il cui odore gli dava la
nausea, non potendo più viverle, più darsi a quel
tipo di vita, a perdersi con lo sguardo lungo le
pareti del campanile della cattedrale, alto più di
quarantacinque metri e minaccioso, possente e largo,
ora assediato dall'erba e dalle polveri, screpolato
e scalcinato lungo le pareti grigie, affetto da
muffe e infiltrazioni, dai licheni che crescevano
dopo le copiose nevicate di febbraio.
Insomma, non usciva mai. Lo studio era oramai
l'incarnazione di ogni vita possibile,
l'immaginazione costruita e artigianale del di
fuori, il teatro (che in paese non c'era), il cinema
che lui stesso si ingegnava a fantasticare
attraverso lunghe e meticolose lubrificazioni
mentali. Quello studio era una fortezza protetta da
pareti di piombo,almeno a lui sembravano: una torre
murata nella quale lui era il discepolo, almeno così
si sentiva, credeva e si era convinto di essere,
cattivo, l'ultimo, il quale Cristo santo lo aveva
estromesso da ogni comunità, da ogni vita, destinato
a vivere con i rigurgiti della storia, con gli
spettri degli antichi, tramite le dispute (sempre
più polemiche) atte ad elargire con lucidità
intellettualoide i fatti violenti della storia degli
uomini e delle civiltà. Tutto questo, tranne il
giovedì, giorno in cui dava lezioni di religione ai
ragazzi della Parrocchia, e ad altri alcuni
ripetizioni di lettere e filosofia.
Lezioni che proseguivano per ore e che si
inoltravano per l'arco di una intera serata;
vedi questo è un endecasillabo... lo senti il verso
come scivola armonico.... la poesia civile è una
poesia di coscienza- diceva, elargendo spiegazioni
di sorta, mentre allungava le mani sulle gambe esili
dei ragazzini, di quell'allevi che lui considerava
discepoli, figli di un Dio minore. Hegel è stato un
filosofo ma non grande, a sua volta tutto il
percorso della cultura e quindi della filosofia
occidentale è determinato dal pensiero di Platone,
dal platonismo....- tornava a ribadire, mentre con
le dita pizzicava le guance rosee degli allievi.
Oramai da tempo le "lezioni", le sue ripetizioni
erano diventate celebri, e la gente sapeva, ma non
voleva crederci, stentava a credere che nella stanza
di Aurelio, del Socrate della cittadina, l'unico
figlio illustre, l'uomo del mistero- come altri lo
definivano- potevano accadere certe cose. Fatti che
si ripeterono e ogni giovedì si riconfermavano nella
stanza di Aurelio, nello studio dell'ultimo
apostolo, come si definiva lui, dello storico
cattolico secondo cui le redini della storia, della
civiltà, della vita erano tenute per mano di un solo
ente - eterno, inconsistenze, afisico, lontano e
vicino al contempo- Dio. Fattacci che si
concretizzarono in piccole attenzioni amorose,
sentimentali, in omaggi carnali che Aurelio riceveva
ma che generosamente dispensava cercando l'anima ed
il lustro dell'intellighenzia, di quel quoziente
intellettivo ed emotivo che a quell'età è agli
apogei di ogni essere uomo, tra le pieghe dei
pantaloni di quei ragazzini, dei suoi discepoli.
Nello specifico a Giulio Maria, il suo prediletto,
un ragazzettoo suidiciassettete anni, cui parlava di
Dio, dell'ultima cena, dell'impiccagione dello
Escariota, suicidatosperchéhperseguitatoto dopo lo
scandalo. E poi, poi dell'ultima cena, della
tavolata oggetto del crimine da parte degli
inquirenti del caso, di una cena che avrebbe voluto
lui stesso tenere, magari in primavera, in campagna
nella sua casa fuori dal paese e lontano dagli occhi
indiscreti - alla fine la vera essenza del
cattolicesimo, a differenza del cristiano e del
sentirsi cristiano, è alla portata di pochi- di una
tavolata in cui i ragazzi sarebbero stati i
commensali e lui il cristo pronto ad essere tradito,
nell'attimo in cui Giulio Maria era d'uopo dargli un
bacetto, e non sulla guaccia, troppo facile!, ma
sulle labbra tanto ad intensificare questo senso di
simbiosi perfetta, di incarnazione sublime tra noi,
ossia lui, l'ente, Aurelio in questo caso, e il
prossimo. Cena che sarebbe finita in una passione
vissuta sino allo spasimo, di corpi che si sarebbero
contesi, e con una finta - non poteva essere, pur a
volerlo inscenare Gesù il Nazzareno- crocifissione
che ne avrebbe decretato la fine, l'essenza della
morale di una parabola sublime, al pronunciare di:
"padre perdona loro perché non sanno quello che
fanno". E si immaginava, impegnato a dispensare
locuzioni filosofiche e dispute sessorali, e a loro
volta i ragazzi immaginavano, il di tutto e il di
più, l'esegesi tutta corporale, in questo senso, sui
passi meno comprensibili al cuore umano, tipo la
strage degli innocenti, il diluvio x che avvenne
subito dopo il buon Cristo passò dalla luce del
mondo alle tenebre della morte. Diluvio che, secondo
il vangelo esegeta di Aurelio, non avvenne, o meglio
non deve essere inteso come diluvio, o catastrofe di
sorta, ma come tormenta di neve; neve copiosa che
cadde, ammantando il creato col bianco candore, a
purificare il crimine dell'uccisione, il sacro e
scandaloso peccato originale. Posizioni filosofiche-
accidenti non poteva farne al meno - che davano un
senso alla vita, alla sua esclusione di illustre
storico cattolico apostolico (anche se laico)
romano. Locuzioni apparentemente senza senso mentre
invece arricchivano la stipsi storiografica dei suoi
scritti, della sua versione sempre aperta - Popper
non c'entra niente, menomale!- redatta a chi sappia
decifrarla in quattro righe di pura riflessione su
di un ciclo di volumi mai scritti veramente.
La storia di Aurelio, digressioni parafilosofiche a
parte, da matre pansè incalliti, da giorni e giorni
di interi pacchetti di sigarette e brandy consumati,
racconta come fini lei stessa. La tanto immaginata
ultima cena, anche se non ci fu occasione di
tenerla, in qualche modo ci fu in parte. Dopo tante
lezioni di teologia, di filosofia, di corsivi
polemici scritti per i quotidiani o riviste di
qualche provincia sperduta, di omaggi sessorali, di
carezze animali, di brividi felini, il tutto finì
con un tradimento da parte di Giulio Maria, il
discepolo prediletto che lo colpì mortalmente con
delle forbiti al petto, proprio sul cuore, anche se
il colpo per difesa fu casuale. Aurelio morì così
agli occhi del ragazzo, in una pozza di sangue, in
quel sangue malvagio che tanto l'ebbe a
comprometterlo in vita, che tanto l'ebbe a
tormentarlo. E con la sua morte si ruppe il cerchio
dell'omertà, del far finta di non sapere, la
riverenza che i grandi, gli adulti della provincia
nutrivano per l'ultimo discepolo. I ragazzetti
potevano ora ritenersi liberi, esperti di carezze
d'amore e di brividi che avrebbero dispensato negli
angoli bui del paese, sulle pietre disseminate nei
campi in campagna, ovunque la vita gli avesse
portati. Liberi come Giulio Maria, spoglio da ogni
ombra di dubbio, da ogni triste pensiero,
ammanettato dai gendarmi tra la ressa della piazza
che copiosa si era riversata sotto casa di Aurelio,
portato sulla camionetta, con la blusa piena di
sangue, del plenipotenziario della provincia.
|
|
|