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Narrativa

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi in prosa inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
Il numero otto di Sandra Carresi, Un minuto di guida dell'improvvisato pilota Otto Francisco Shultz di Stefano Gecchele, Accordi carmici di Iuri Lombardi, Nello studio dell'ultimo apostolo di Iuri Lombardi, Siamo solo numeri di Gavino Ortu, L'alfabeto numerico di Lorenzo Spurio

Poesia italiana

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Sandra Carresi, Rossana D'Angelo, Alessandra Ferrari, Emanuela Ferrari, Maria Lenti, Iuri Lombardi, Cesare Lorefice, Luca Mori, Ivana Orlando, Gilbert Paraschiva, Ivan Pozzoni, Gabriele Serpe, Anna Maria Volpini, Michela Zanarella

Poesia in lingua

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Aurelian Sorin Dumitrescu, Marius Viorel Girada, Ioana Livia Stefan

Recensioni

In questo numero:
- "Introduzione al mondo" di Idolo Hoxhvogli", recensione di Lorenzo Spurio
- "La setta dei giovani vecchi" di Luca Rachetta, recensione di Lorenzo Spurio
- "Tredici Rose Rosse" di Francesco Vico
- "Senza Frontiere" di Sonia Cincinelli
- "Ritorno ad Ancona ed altre storie" di Lorenzo Spurio e Sandra Carresi
- "L'oro e l'alloro" di Cesare Lorefice, nota di Massimo Acciai
- "Il rosso e il nero della comunicazione" di Stefano Angelo
- "Graffio d'Alba" di Lenio Vallati, recensione di Marzia Carocci
- "Codice della felicità" di Paolo Mantegazza, recensione di Emanuela Ferrari
- "L'Italia meridionale peninsulare nella storiografia bizantina", di Gennaro Tedesco 

Articoli

La centralità del numero in letteratura
di Lorenzo Spurio

Interviste

La sensualità dell'anima: intervista a Iuri Lombardi
A cura di Massimo Acciai
intervista a Vincenzo Calò
A cura di Lorenzo Spurio
Intervista a Corrado Sobrero: autore eclettico e del cambiamento come crescita
A cura di Alessandro Rizzo

Nello studio dell'ultimo apostolo
 

Iuri Lombardi

 

Ad Aurelio l'estate non era mai piaciuta, delle quattro stagioni preferiva le ultime due per una serie di ragioni che anche a lui parevano incomprensibili. Probabilmente doveva essere una questione di silenzio; l'estate era l'apoteosi del caos, della confusione e a tutte le ore. Ragazzi, giovani uomini e poi adulti, e buone figlie di famiglia soliti erano affollare le vie maestre del borgo, la piazza madre, dalla quale si dipartono per mille rivoli, come un albero gigantesco dai tanti rami, strade e stradine, vicoli, erte vertiginose verso il basso, lungo il dorso nudo e senza alberi della cittadina, distesa come un serpente su di una zolla di creta e attorcigliato su se stesso. Preferiva l'autunno, era chiaro, i silenzi irreali, le nebbie alte che, a lui, davano l'idea remota di un sipario di uno spettacoletto parigino delle bella èpoque. Stagione in cui i ricordi cullava nel più remoto angolo della sua memoria; oramai spoglia di ogni spettacolo, di caffè affollati, di aperitivi nelle ore tardo pomeridiane, di notti passate all'aperto cui il vento pettinava ogni cosa gonfiando di speranza e di gioia di vita i cuori senza nulla in cambio. Erano lontani quei giorni. Così come lontana era la ciurma delle donne amate, dimenticate a Parigi lungo il corso della Senna, lungo gli champs élisées, sulle orme misteriose dei Manet, dei Renoire, dei Pissaro, e poi di Hugo, e Boudelaire, cui era solito, per abitudine più che per grazia intellettuale, riferirsi in compagnia di una di quelle fanciulle sfiorite e senza ombra. Certo, ricordava bene le letture di Cèline, i primi studi privati di storia alla Sorbona, i primi interventi pubblicati ora su questa ora su quella rivista storiografica. E poi si ricordava Napoli, il rientro in Italia, le nozze con Assunta, sua moglie dalla quale non ebbe mai figli e dalla quale rimase vedovo poco tempo dopo, e poi i ritrovi con gli intellettuali di allora: Croce, Gentile, e poi ancora la Napoli del Prisco, e del Rea, la partenope metropoli di bar aperti sino all'alba e di canzoni, di versi che si scioglievano come fiocchi di neve sospesi nell'aria. Versi, che agli altri, sembravano accostare a partiture musicali, a sciami di note raggruppate tra loro come interi acini di uva. Tutto passato. Il ritorno al paese sancì per lui il ritorno alla protostoria, alla morte, costretto a vivere fin da bambino quando, sotto la minaccia severe del padre, nella capanna di campagna ad un paio di miglia dal paese, dalle prime case che Dio, il suo Dio misericordioso che secondo lui era al timone della storia e degli uomini, l'io per eccellenza, lontano da ogni idealismo di sorta, già Heghel era uno sguattero buono solo a lavare i piatti in una trattoria di Berlino, se ne andava a pascolare il gregge su per le valli spoglie dove solo a luna e il sole vi restavano a lungo,vi si affacciavano su quei calanchi di arenaria e di fango, con sempre appresso un libro e i vangeli, o il libro dei canti canonici che ebbe a rubare durante una messa in chiesa la domenica dell'ascensione. Il paese era la morte, l'incarnazione di ogni quiescenza, la morte spirituale, la caduta nel tempo - e non apprezzava Cioran- di un tempo x senza tempo, metafisico, dove i giorni scorrevano come acqua di fiume in estate: senza lasciare traccia sul letto sassoso del medesimo torrente. Se ne stava giorno e notte nel suo studio, sulla piazza, a pochi metri dalla chiesa madre, la cattedrale angioina. Nella stanza dove non entrava un briciolo di luce, uno spiffero di aria nuova, seduto alla scrivania compromessa da fascicoli e riveste, da pile di libri da consultare, da fogli pronti per essere scritti, feriti dalla punta metallica della penna allo scopo si buttar giù due righe di appunti ora su quel passo del libro, ora per la presentazione asimmetrica di un pensiero remoto, di una osservazione filosofica; anche se per uno storico è sbagliato dare un giudizio se pur essenziale ad un evento, lo storico, uno storiografo, mettiamo anche di quarta categoria, deve solo limitarsi a storicizzare il fatto, l'evento in sé, se tanto tanto tenta di giudicarne l'effetto, la forza cercando di apporvi uno sguardo filosofico tradisce il suo ruolo o la "missione", come piaceva raccontarsi Aurelio, commette un crimine, un incidente mortale; una acrobata che sbaglia il salto, un funambolo tradito dall'equilibrio e minacciato dal vuoto. Così, tra una cosa e l'altra, tra una questione ed un'altra, passava i giorni e le stagioni, a scrutare con attenta meticolosità i libri riposti sugli scaffali della libreria che copriva le quattro mura dello studio, dell'ufficio della disillusione, come si raccontava e come definiva agli altri, che raramente lo disturbavano, se non nell'ora del thé affumicato che inebriava i suoi sensi rattrappiti sotto l'abito di lana pesa durante l'inverno, e di velluto d'estate, a disquisire sul tempo andato, sulla disillusione, ossia lo scioglimento di ogni sogno affiorato sul filo della mente, tempo da rapportare al presente. Ogni tanto era solito alzarsi, scorgere da dietro le imposte rigorosamente chiuse lo scenario vagabondo della piazza ampia, lastricata a schiena d'asino dalla pietra serena, dei ragazzi sulle panchine a disamorarsi di loro e del tempo, a tessere storie umane il cui odore gli dava la nausea, non potendo più viverle, più darsi a quel tipo di vita, a perdersi con lo sguardo lungo le pareti del campanile della cattedrale, alto più di quarantacinque metri e minaccioso, possente e largo, ora assediato dall'erba e dalle polveri, screpolato e scalcinato lungo le pareti grigie, affetto da muffe e infiltrazioni, dai licheni che crescevano dopo le copiose nevicate di febbraio.
Insomma, non usciva mai. Lo studio era oramai l'incarnazione di ogni vita possibile, l'immaginazione costruita e artigianale del di fuori, il teatro (che in paese non c'era), il cinema che lui stesso si ingegnava a fantasticare attraverso lunghe e meticolose lubrificazioni mentali. Quello studio era una fortezza protetta da pareti di piombo,almeno a lui sembravano: una torre murata nella quale lui era il discepolo, almeno così si sentiva, credeva e si era convinto di essere, cattivo, l'ultimo, il quale Cristo santo lo aveva estromesso da ogni comunità, da ogni vita, destinato a vivere con i rigurgiti della storia, con gli spettri degli antichi, tramite le dispute (sempre più polemiche) atte ad elargire con lucidità intellettualoide i fatti violenti della storia degli uomini e delle civiltà. Tutto questo, tranne il giovedì, giorno in cui dava lezioni di religione ai ragazzi della Parrocchia, e ad altri alcuni ripetizioni di lettere e filosofia.
Lezioni che proseguivano per ore e che si inoltravano per l'arco di una intera serata;
vedi questo è un endecasillabo... lo senti il verso come scivola armonico.... la poesia civile è una poesia di coscienza- diceva, elargendo spiegazioni di sorta, mentre allungava le mani sulle gambe esili dei ragazzini, di quell'allevi che lui considerava discepoli, figli di un Dio minore. Hegel è stato un filosofo ma non grande, a sua volta tutto il percorso della cultura e quindi della filosofia occidentale è determinato dal pensiero di Platone, dal platonismo....- tornava a ribadire, mentre con le dita pizzicava le guance rosee degli allievi.
Oramai da tempo le "lezioni", le sue ripetizioni erano diventate celebri, e la gente sapeva, ma non voleva crederci, stentava a credere che nella stanza di Aurelio, del Socrate della cittadina, l'unico figlio illustre, l'uomo del mistero- come altri lo definivano- potevano accadere certe cose. Fatti che si ripeterono e ogni giovedì si riconfermavano nella stanza di Aurelio, nello studio dell'ultimo apostolo, come si definiva lui, dello storico cattolico secondo cui le redini della storia, della civiltà, della vita erano tenute per mano di un solo ente - eterno, inconsistenze, afisico, lontano e vicino al contempo- Dio. Fattacci che si concretizzarono in piccole attenzioni amorose, sentimentali, in omaggi carnali che Aurelio riceveva ma che generosamente dispensava cercando l'anima ed il lustro dell'intellighenzia, di quel quoziente intellettivo ed emotivo che a quell'età è agli apogei di ogni essere uomo, tra le pieghe dei pantaloni di quei ragazzini, dei suoi discepoli. Nello specifico a Giulio Maria, il suo prediletto, un ragazzettoo suidiciassettete anni, cui parlava di Dio, dell'ultima cena, dell'impiccagione dello Escariota, suicidatosperchéhperseguitatoto dopo lo scandalo. E poi, poi dell'ultima cena, della tavolata oggetto del crimine da parte degli inquirenti del caso, di una cena che avrebbe voluto lui stesso tenere, magari in primavera, in campagna nella sua casa fuori dal paese e lontano dagli occhi indiscreti - alla fine la vera essenza del cattolicesimo, a differenza del cristiano e del sentirsi cristiano, è alla portata di pochi- di una tavolata in cui i ragazzi sarebbero stati i commensali e lui il cristo pronto ad essere tradito, nell'attimo in cui Giulio Maria era d'uopo dargli un bacetto, e non sulla guaccia, troppo facile!, ma sulle labbra tanto ad intensificare questo senso di simbiosi perfetta, di incarnazione sublime tra noi, ossia lui, l'ente, Aurelio in questo caso, e il prossimo. Cena che sarebbe finita in una passione vissuta sino allo spasimo, di corpi che si sarebbero contesi, e con una finta - non poteva essere, pur a volerlo inscenare Gesù il Nazzareno- crocifissione che ne avrebbe decretato la fine, l'essenza della morale di una parabola sublime, al pronunciare di: "padre perdona loro perché non sanno quello che fanno". E si immaginava, impegnato a dispensare locuzioni filosofiche e dispute sessorali, e a loro volta i ragazzi immaginavano, il di tutto e il di più, l'esegesi tutta corporale, in questo senso, sui passi meno comprensibili al cuore umano, tipo la strage degli innocenti, il diluvio x che avvenne subito dopo il buon Cristo passò dalla luce del mondo alle tenebre della morte. Diluvio che, secondo il vangelo esegeta di Aurelio, non avvenne, o meglio non deve essere inteso come diluvio, o catastrofe di sorta, ma come tormenta di neve; neve copiosa che cadde, ammantando il creato col bianco candore, a purificare il crimine dell'uccisione, il sacro e scandaloso peccato originale. Posizioni filosofiche- accidenti non poteva farne al meno - che davano un senso alla vita, alla sua esclusione di illustre storico cattolico apostolico (anche se laico) romano. Locuzioni apparentemente senza senso mentre invece arricchivano la stipsi storiografica dei suoi scritti, della sua versione sempre aperta - Popper non c'entra niente, menomale!- redatta a chi sappia decifrarla in quattro righe di pura riflessione su di un ciclo di volumi mai scritti veramente.
La storia di Aurelio, digressioni parafilosofiche a parte, da matre pansè incalliti, da giorni e giorni di interi pacchetti di sigarette e brandy consumati, racconta come fini lei stessa. La tanto immaginata ultima cena, anche se non ci fu occasione di tenerla, in qualche modo ci fu in parte. Dopo tante lezioni di teologia, di filosofia, di corsivi polemici scritti per i quotidiani o riviste di qualche provincia sperduta, di omaggi sessorali, di carezze animali, di brividi felini, il tutto finì con un tradimento da parte di Giulio Maria, il discepolo prediletto che lo colpì mortalmente con delle forbiti al petto, proprio sul cuore, anche se il colpo per difesa fu casuale. Aurelio morì così agli occhi del ragazzo, in una pozza di sangue, in quel sangue malvagio che tanto l'ebbe a comprometterlo in vita, che tanto l'ebbe a tormentarlo. E con la sua morte si ruppe il cerchio dell'omertà, del far finta di non sapere, la riverenza che i grandi, gli adulti della provincia nutrivano per l'ultimo discepolo. I ragazzetti potevano ora ritenersi liberi, esperti di carezze d'amore e di brividi che avrebbero dispensato negli angoli bui del paese, sulle pietre disseminate nei campi in campagna, ovunque la vita gli avesse portati. Liberi come Giulio Maria, spoglio da ogni ombra di dubbio, da ogni triste pensiero, ammanettato dai gendarmi tra la ressa della piazza che copiosa si era riversata sotto casa di Aurelio, portato sulla camionetta, con la blusa piena di sangue, del plenipotenziario della provincia.

 
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