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Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a chiunque voglia
inviare testi poetici inediti, purché rispettino
i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Aurelian Sorin
Dumitrescu, Marius
Viorel Girada, Ioana
Livia Stefan
Recensioni
In questo numero:
- "Introduzione al mondo" di Idolo Hoxhvogli",
recensione di Lorenzo Spurio
- "La setta dei giovani vecchi" di Luca
Rachetta, recensione di Lorenzo Spurio
- "Tredici Rose Rosse" di Francesco Vico
- "Senza Frontiere" di Sonia Cincinelli
- "Ritorno ad Ancona ed altre storie" di
Lorenzo Spurio e Sandra Carresi
- "L'oro e l'alloro" di Cesare Lorefice, nota
di Massimo Acciai
- "Il rosso e il nero della comunicazione" di
Stefano Angelo
- "Graffio d'Alba" di Lenio Vallati,
recensione di Marzia Carocci
- "Codice della felicità" di Paolo Mantegazza,
recensione di Emanuela Ferrari
- "L'Italia meridionale peninsulare nella
storiografia bizantina", di Gennaro Tedesco
Articoli
Interviste
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Quando a scuola m'insegnarono i
numeri, la mia vita cambiò completamente. Avevo
pochi anni e non mi piaceva andare a scuola. La
scuola aveva un corridoio d'entrata molto lungo e
stretto sul quale davano le varie aule, delle stanze
molto grandi dal soffitto minacciosamente alto. Le
maestre, sebbene cercassero di essere cortesi e di
apparire simpatiche, erano tutt'altro perché durante
le lezioni erano sempre pronte a sgridarci o a
metterci in castigo quando facevamo qualcosa di
infantile. Eravamo bambini, per forza facevamo delle
cose infantili. Dalla scuola capii che il mondo era
fatto di leggi severe e obblighi a cui sottostare
che erano stati imposti da persone più anziane e
cattive, proprio come le maestre alla scuola.
Ricordo che una delle maestre aveva stabilito la
divisione dei posti in aula. A me era toccato vicino
a un ragazzo che portava gli occhiali. Non lo
conoscevo. Era un ragazzo molto silenzioso, come se
nascondesse qualcosa. Odiavo le maestre, la scuola e
le lezioni. Avevo un'indole abbastanza ribelle e per
questo spesso incorrevo nei castighi delle maestre.
Volevo essere libero. La mia libertà arrivò con le
prime lezioni di matematica. I numeri, le cifre, le
operazioni matematiche riuscivano a farmi star bene
e a darmi un senso di liberazione che non avevo mai
provato a scuola.
Mi piacevano i numeri per la loro forma arrotondata
e spesso mi domandavo chi era il genio che li aveva
inventati. Solo dopo poco tempo scoprii che erano
stati gli arabi e da quel giorno non posso far altro
che guardare la cultura araba di buon occhio. È una
grande invenzione. I numeri stanno da per tutto.
Possiamo ricondurre tutto ai numeri. Così in breve
tempo mi attaccai a quella materia come un
alcolizzato alla bottiglia. Ero molto bravo nelle
operazioni. Quella che mi piaceva di più era la
divisione perché attraverso di essa riuscivo a
mettere in relazione la parte al tutto. Venti è la
quinta parte di cento. I numeri primi mi
affascinavano e sapevo riconoscerli in breve tempo
mentre gran parte della classe aveva difficoltà
nell'individuarli. Non mi sentivo un genio ma
pensavo che da grande avrei inventato qualche
formula matematica in grado di risolvere dei quesiti
importanti.
A casa parlavo spesso di cifre. Quando i miei
parlavano e nel discorso citavano dei numeri, io
subito intervenivo dicendo per quali numeri poteva
essere scomposto, se era pari, se era palindromo e
individuavo il minimo comun divisore con i numeri
che avevano precedentemente detto. Loro ovviamente
continuavano i loro discorsi non mancando di
guardarmi in maniera stralunata e preoccupata. A un
certo punto della mia passione matematica cominciai
a ricondurre ogni cosa a un numero. Il televisore,
secondo me, in termini numerici, poteva essere 101.
Un albero era 1 ma se aveva un ramo particolarmente
squadrato a formare una L allora diventava 7. Il mio
mondo era fatto di numeri. Solo io riuscivo a
interpretare il mio mondo con le mie formule, i miei
corollari segreti e le mie formule numeriche.
Passò del tempo ma restai fedele alla mia passione.
Elaborai un mio alfabeto numerico con in quale
potevo decifrare il mondo. Era un alfabeto
privatissimo in quanto io ne ero l'unico custode e
l'unico conoscitore. Quando m'iscrissi alle
superiori scoprii nuove formule. Scoprii gli
integrali, i logaritmi e i decimali, oltre al
calcolo infinitesimale. Per me tutto questo fu una
boccata d'aria nuova. Studiai a fondo i nuovi
argomenti e me ne appassionai ancora di più.
Tuttavia fui costretto a rivedere le mie teorie
precedenti e soprattutto il mio alfabeto numerico
perché mi resi conto, in base ai nuovi argomenti,
che avevo fatto degli errori.
Continuai a ricondurre ogni cosa a un numero. La
vita è un'espressione algebrica che può essere
risolta in varie maniere. La famiglia non è altro
che l'unione o l'intersezione che si forma tra
diversi insiemi. Tagliare una torta è come
immaginare una frazione. L'amore tra due persone può
essere studiato attraverso una funzione y = f(x).
Dio ha un campo di esistenza da meno infinito a più
infinito. Tutto ha una realizzazione pratica nella
matematica.
A scuola continuavo ad andare mediocremente. In
matematica avevo dieci. Ero l'unico di tutta la
classe. Nella mia mente continuavo a ricondurre
tutto alle cifre, alle operazioni e alle funzioni
logico-matematiche. Altra grande scoperta la feci
quando conobbi il codice informatico ASCII. Quest'ultimo
poteva significare una nuova interpretazione della
vita. Preferii non farla interferire con i miei
pensieri aritmetici.
A casa mi vedevano spesso assorto o a prendere
appunti sul mio quaderno dove appuntavo lunghezze,
altezze, pesi e cifre di ogni natura. Un giorno mio
padre mi chiese se andasse tutto bene a scuola e gli
risposi di sì. A quel punto mi chiese di lasciargli
vedere il mio quaderno. Ero molto geloso delle mie
cose ma soprattutto non volevo che un intruso
venisse a sapere delle mie intuizioni, delle mie
scoperte, delle mie formule. Gli dissi che non
volevo farglielo vedere e allora lui, indignato, me
lo strappò di mano. A quel punto fui costretto a
intervenire. Corsi in cucina, presi un coltello ad
ampia lama e ritornai in salone. Lui stava
sfogliando il mio quaderno e non mi vide entrare. Mi
avvicinai a lui, alzai il coltello verso di lui per
colpirlo urlando: "Se non lasci il mio quaderno ti
infilzo questa lama lunga 22 cm e larga 4, spessa
0,2 in maniera obliqua di 45° e la lascio affondare
nel tuo corpo per 20 cm finché non hai più fiato per
respirare".
Mi diede una botta veloce e perspicace e mi fece
cadere il coltello. Mi sgridò dicendomi che non
dovevo toccare i coltelli. Mi picchiò. Mentre mi
menava cercavo di invocare nella mia mente qualche
corollario di mia invenzione per non sentire il
dolore. Dopo avermi picchiato, prese il mio quaderno
e me lo stracciò davanti agli occhi urlandomi che
avevo stancato con la matematica e con i numeri. Una
settimana dopo, persi il mio dieci in matematica.
Ora me la cavo, ma non è più come una volta.
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