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Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Recensioni
In questo numero:
- "Sempre ad est" di Massimo Acciai,
recensione di Lorenzo Spurio
- "La metafora del giardino in letteratura" di
Lorenzo Spurio e Massimo Acciai, recensione di
Sandra Carresi
- "Diario di un Atto d'Amore" di Danilo
Bughetti
-
"Linea 429 " di Salvatore Scalisi
- "La Vita in sintesi. Aforismi" di Fiorella
Carcereri
- "Un bacio da... 10 anni" di Raffaele
Leggerini, Recensione di Sara Rota
- "Niente e' come sembra" di Tommaso Carbone
- "Le verità donate" di Annalisa Margarino
- "Labyrinthi" di autori vari
- "Attimi. Il Puzzle della vita" di Antonella
Ronzulli, recensione a cura di Lorenzo Spurio
- "Ritorno ad Ancona e altre storie" di
Lorenzo Spurio e Sandra Carresi, Recensione di
Enrica Meloni
- I Concorso Letterario Internazionale
Bilingue "Camminanti, gitani e nomadi: la
cultura itinerante"
- "Atto d'amore" di Dario Schiavoni
- "Favole crudeli" di Cristina Canovi,
recensione di Lorenzo Spurio
- "Mostri. Poveri diavoli, chimere e altre
storie" di Ivan Pozzoni, recensione di Lorenzo
Spurio
- "Sangue, sapone e camicie di forza" di
Cristina Canovi, recensione di Lorenzo Spurio
- "Le rose di Atacama", Luis Sepùlveda,
recensione di Emanuela Ferrari
- "Io e i tuoi valori" di Maria Marano
- "Borgo Propizio" di Loredana Limone, nota di
Massimo Acciai
- "Labyrinthi" a cura di Ivan Pozzoni
- "Versi introversi" di Ivan Pozzoni
- "Pensieri Minimi e massime" di Marcuccio
Emanuele
-
"The rave" di Mattia Zadra
Articoli
Interviste
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Che cos'è oggi la letteratura?
Che cos'è oggi la letteratura? Se
la domanda, l'interrogativo del caso, ontologico o
meno, può destare sorpresa e può nascere in maniera
naturale, la risposta è assai più complessa.
Anzitutto credo necessiti fare, oramai giunti al
tempo della consapevolezza, una netta distinzione
tra letteratura di consumo, quella che in sociologia
definiamo di intrattenimento, e una disciplina,
un'arte che resta tale vivendo sottaciuta ai molti,
alla massa, alla maggior parte dei lettori per una
questione di interessi e per una logica perversa di
mercato ( gli editori che investano sul prodotto e
su colui che lo fa non ci sono più, mancano le casse
di risonanza, alla fine l'editoria è un far West
dove vince il più forte, le grandi e intoccabili
produzioni editoriali). Una letteratura figlia, in
una certa misura, del "pensiero debole", della
post-ontologia, del post-moderno; insomma una
disciplina che incarna tutti quei valori che si sono
affermati, dietro la scia filosofica di certi
filosofi o teorizzatori rispetto ad altri,
nell'ultimo sessantennio italiano e mondiale.
Insomma una letteratura non più figlia delle belle
parole, della classicità, del buon scrivere, tutta
incentrata su storie d'amore, intimiste; ma una
espressione che è frutto di una riforma del
linguaggio e del genere stesso. Cresciuta in seno
alla dissipazioni di valori, all'anticonformismo
mediatico, urbano, architettonico del contesto
post-moderno; figlia dissoluta del non raccontare,
del non detto, della frammentazione ontologica del
nostro tempo ( quell'aggirarsi tra le tombe di
Nietzsche) la letteratura contemporanea (e quindi la
letteratura del futuro) va oltre il genere, diventa
una fabula che catalizza, concentra in sé più
generi; un corpo ibrido di linguaggi e di forma che
fa di essa una fuoriuscita dalla definizione che la
rilega a tale. Senza alcun preambolo, né di forma né
di sostanza. La letteratura, per essere definita
letteratura, l'arte della narrazione, deve oggi non
essere più di genere per adempiere al suo compito.
Un compito, un onere non più morale, oserei dire
senza morale, che non è consolazione (come pensata
precedentemente), ma disillusione, presa fotografica
della realtà contemporanea. Una disillusione senza
speranza che si nutre ancora della ricerca
linguistica e anacronistica sui fatti della storia e
su quelli civici di un paese.
Anzitutto, prima di procedere, è giusto stabilire
alcuni paletti di natura etica per comprenderne la
identità esplicativa. In primo luogo, oserei dire
che oggi per superare il "di genere", la letteratura
deve oltrepassare il concetto ontologico
dell'essere. Un concetto che si elimina, si
dimentica solo se impostiamo una lettura onesta
intellettualmente sull'importanza del testo e non
dell'autore. La figura
dell'autore, infatti, presuppone un auspicio di
applausi, di benemerenza, che rende non solo la
letteratura una disciplina oggetto di proiezioni
narcisistiche e borghesi (per molto tempo lo è
stata, oggi fortunatamente, l'unica reale
letteratura borghese è quella di intrattenimento,
vale a dire quella narrativa o poesia che è rimasta
nel genere, nella abusata lettura da spiaggia), ma
in particolare la lega ad un ruolo classico che oggi
è solo un surrogato della belle époque. Oltrepassare
il dato ontologico, la figura dell'autore intesa
come protagonista del gesto, presuppone una non
coscienza della cosa.
Solo il testo, infatti, essendo esso catalizzatore
della realtà, tessuto indenne della ibrida
circostanza storica e mediatica, ha l'importanza che
merita, e non chi lo ha partorito. Colui che scrive
supera se stesso, non è più, in quanto si fonde
nella materia nella quale si è espresso, si è
affidato ad un "esserci" letterario e non più umano,
non più biologico. Insomma, volendo sintetizzare,
l'autore è coinvolto, trascinato all'interno del
testo e non più separato. Quindi non c'è più
differenza tra l'io che vive e l'io che scrive.
L'io che scrive è la letteratura, la sua
letteratura, un io pronto a darsi agli altri, al
mondo, alla vita del di fuori. E non importa, non ha
alcuna importanza, se esso si esprime in terza o in
prima persona. All'atto che scrive egli diventa un
"noi", un "voi": materia della propria espressione
narrativa, illusoria. In poche parole non esiste.
Non è più un uomo, un mito oggetto delle proprie
proiezioni narcisiste (spesso il pubblico si
identifica nell'autore e non nel testo, ma cosa
corretta sarebbe ed è l'opposto), è il nulla.
All'atto che scrive si auto-sospende dall'essere per
diventare materia di espressione, un ingegnere dei
giochi fonetici, dei vari linguaggi. Autore -
materia di una lingua senza forma, di solo
contenuto; di non essere in quanto cruda fotografia
di un istante, di una storia.
Fotografia che, per l'appunto, vive sopra il genere,
in cui la poesia e la prosa si influenzano a
vicenda, senza che entrambe le discipline abbiano
una vera identità di metodo e di forma. La poesia
diventa prosastica, catalizzatrice dei linguaggi
comuni, di quelli mediatici, televisivi, conservando
un idioma tradizionale per sperimentare ed
esprimerne uno nuovo. Da che mondo e mondo, da
quando l'uomo fa poesia, il suo compito è quello di
sperimentare il linguaggio, giocare con le parole.
Questa è la poesia. La prosa, inoltre, non solo si
traveste, assume, incarna e veste gli abiti della
poesia, per confondere le carte del gioco, per
diventare una sorta di meta-espressione letteraria,
ma deve e necessita essere essa stessa un
concentrato di varie forme, di vari linguaggi;
insomma non essere più la bella prosa classica,
dello scrittore di classe. Ma una prosa
post-moderna, una delle tante "vite" dell'intelletto
umano: un prodotto sganciato dall'editoria, in
quanto non prodotto commerciale ma fruibile a tutti.
Un prodotto da leggere e comprendere (in cui il
lettore deve riconoscersi, ampliare, finire) tramite
tutti i mezzi possibili e non solo mediante il
libro: ma tramite gli ipad, gli ibooks, social
network ecc. Insomma: deve essere rapida, sintetica.
Unico modo assoluto per superare non solo il genere
di prosa, ma il romanzo stesso oramai abusato e
commerciale. Quindi, per adempiere ad un ruolo
autorevole, per avere una sua ragione di essere/ci,
il romanzo deve reinventarsi fuori della classicità;
deve farsi ibrido, quasi fosse un racconto lungo e
non un romanzo. Deve, per essere leggibile,
ripristinare il racconto, la prosa-fotografia; la
sintesi.
Solo il romanzo di intrattenimento, quello povero,
fuori dall'ottica della sperimentazione, e quindi
oggetto commerciale, purtroppo non rientra in questo
tipo di verità e non assolve un vero compito. Il
libro di intrattenimento è rilegato a riproporre per
l'eterno il suo mito senza mai modificarsi. Un mito
sviluppato tramite le storielle d'amore ( che già
Roland Barthes definì ridicolo e anacronistico, non
più capaci di esprimere niente, prive di coscienza e
sterili), il cui io narrante gode ancora di quel
distacco organico che c'era tra la materia scritta e
l'uomo/scrittore.
Inoltre, per essere tale, non deve maturare parti
fortemente descrittive in termini classici, non deve
dare indicazioni figurative sui personaggi, per
quello è sufficiente la trama, gli aspetti
psicologici legati ai singoli protagonisti, perché
questo compito spetta al lettore: è lui l'unica
figura che deve costruire gli aspetti fisiognomici
dei personaggi e, possibilmente, completare parti
della storia scritta. Questo aspetto iconoclasta da
parte del narratore/narrazione è materia, affida al
lettore un compito in cui esso deve interagire in
stretto rapporto con la pagina. In sintesi: il
lettore diventa coautore del testo, costretto per
sua natura a stravolgerlo per completarlo e
riconoscersi in esso; tanto da innescare una
comprensione epica. Un'epica che oggi è letteratura,
narrazione; che gode di quella educazione che Brecht
apportò alla drammaturgia. L'aspetto iconoclasta, in
sostanza, anti-descrittivo per il figurato è
indispensabile per instaurare un rapporto
complementare e "aperto"(nell'eccezione russelliana
del termine).
In terzo luogo, i soggetti narrati debbono parlare
della vita, della quotidianità, della gente comune
cui, per ragioni di potere politico e per una
impostazione sociologica dovuta alla democrazia, è
stata esclusa come protagonista dalla storia civile
e politica di un paese e del suo tempo, per essere
rilegata inconsapevole ad essere protagonista solo
di una storia biografica, personale. Questo non
significa, sia chiaro, smetterla con il fantasy, con
il giallo, con il noire, ma piuttosto usarli come
sui generis, facendo il modo di non identificarli
per tali. Aspetto interessante, questo, per
alimentare, sviluppare il "realismo magico" (stile
letterario di ordine mondiale) che si annida nel
paradosso della realtà circostante, del quotidiano.
Un realismo velato di fantastico, di grottesco, che
non può altro che stimolare il lettore ad interagire
alla pagina (torno a ripetere l'unica cosa che
conta, e non l'autore) e a colui che scrive ad
indagare il paradosso dei fatti, le dicotomie
apparenti del vissuto, l'imprevidibilità dell'umano.
In sintesi,si tratta di una lezione lontana che da
Pirandello passa per Céline - il vero grande
scrittore europeo- per Joyce, sino ad arrivare a
Saramago, a Mutis ecc...
E' attraverso di esso, mediante questo velo sottile
di ironia, di grottesca narrazione, che la
letteratura contemporanea può ripristinare la sua
grandezza ed il suo ruolo. Insomma; è una questione
di tecnica, di stile, prima delle parole, prima dei
contenuti. Uno stile che fu "minato" per far
rinascere la narrativa da Joyce stesso, nello
Ulisse, mediante il monologo interiore, che fu
portato avanti dagli scrittori di genere degli anni
cinquanta del novecento francesi, che fu
approfondito (oramai adulto e consapevole) dal
Beckett romanziere. Realismo magico, che potremmo
chiamare tranquillamente "letteratura dell'assurdo",
che ha compromesso il discorso dello stile e del
linguaggio per sempre. Il linguaggio si fa "evento"
in quanto miscela di altri linguaggi, tramite i
quali vive; una lingua consapevole - e oggi lo
possiamo affermare dopo la lezione di Lacan e
Derrida- che non c'è rapporto tra il significato e
il significante, che ogni parola, intesa per la sua
etimologia, vive di vita
propria, come fosse una epochè, una monade. Da qui
la faccenda del ritmo non più prosaico, non più
pesante e idilliaco, ma effervescente, diretto,
anti-lirico, non retorico; in quanto il tessuto
narrativo, la pagina diventa materia del non esserci
per chi scrive. La scrittura, il testo non più
testo, in senso etimologico del termine, non
presuppone più ( non ne ha motivo) l'essere/autore,
la figura che da secoli è la vera protagonista;
poiché l'unico ad avere il diritto di esserci è il
lettore, il vero e determinante asso nella manica:
il jolly a cui è affidato il futuro, il presente, e
il passato della pagina scritta.
Quindi, in sostanza, per concludere oggi la
letteratura non è morta, e non può permettersi di
morire, è invece viva e vegeta, consumata per lo più
attraverso altri mezzi, oltre al libro. E' una
protagonista particolare, consapevole di essersi
superata come genere, di essere andata oltre,
partendo - e questo è importante da non
sottovalutare- dalla morte del romanzo, dalla morte
delle bella prosa. E' una miscela potenziale di
forme diversificate e generalista, un catalizzatore
di linguaggi che bene fotografa la realtà
compromessa dei fatti in un determinato periodo
storico. Da qui nasce l'importanza dei laboratori
letterari, delle palestre di pensiero tra coloro che
fanno letteratura.
Laboratori di scrittura creativa, se vogliamo in
parte collettiva, che non fanno altro che bene alla
sperimentazione, all'urgenza del conoscere
letterario. Laboratori - e i veri protagonisti non
sono mai stati i movimenti, quanto gli scrittori
quando hanno cooperato tra di loro - che in
letteratura erano presenti per la stesura dei
gialli, il caso di Ellery Queen, di Patrick Quentin,
per poi arrivare ai giorni nostri , non citando le
avanguardie in quanto è scontato, anche in Italia,
dove il dato si fa interessante.
E allora, la letteratura può, in questi termini,
essere la storia di un paese, ma solo in queste
premesse, se si allinea (come nel caso della
letteratura commerciale, di intrattenimento) allora
ottiene l'effetto contrario: quella di essere un
surrogato, un oggetto di marketing, una letteratura
rosa per lettori che vogliono essere solo
intrattenuti. Insomma, si tratta di un modo di
vivere, perché esercitare la letteratura, le
lettere, la poesia è un modo di vivere, ma anche un
modo di essere, in piccola parte, la testimonianza
di un paese. E a questo punto possiamo solo dire
poche cose ancora; basti pensare a cosa è stata la
Beat generation in America; così importante da
identificare l'America con i loro romanzi, con la
loro tendenza di vita. E' altrettanto vero, e sfido
chiunque a controbattere, che oggi l'America è morta
e quella che noi chiamiamo come tale, non è altro la
proiezione di quello che era in quel tempo. Come la
Francia delle grandi sperimentazioni letterarie, o
la Spagna tra i cinquanta e i settanta. Insomma, di
esempi ne abbiamo da seguire e altrettanto esplode
in noi questo modo di vivere, di affermarsi sempre
come evento, e mai come surrogato di una contesa
commerciale. Bensì di una letteratura del crudele
come direbbe Artaund, una letteratura epica che
superi la letteratura stessa. Non possiamo essere i
tanti scrittori che riempiono le librerie europee ed
italiane, per non dire mondiali, chilometri di
scaffali, legati al momento, all'intrattenere il
pubblico. Quella non è letteratura. Quelli non sono
scrittori. Sono solo imbonitori di storie sommarie,
studiate a tavolino, senza vita, senza evento. Sono
quel velo che dobbiamo squarciare per una dignità
letteraria e civile.
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