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Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi poetici, in una
lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i
più elementari principi morali e di decenza...
poesie in lingua
napoletana,
esperanto ed
inglese
Recensioni
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recensione di Lidia Gargiulo
Seduti dalla parte del torto di
Devil Buio -
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Tutta colpa della poesia di
Dario De Lucia -
recensione di Massimo Acciai
Interviste
Il ruolo del consulente letterario:
Intervista a Marco Bazzato
di Massimo Acciai
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I. Il diario
4 agosto 1985. Penso sempre più spesso che questa stanza
avrebbe bisogno di una pulizia a fondo, ma chi ne ha la forza?
Sono così stanco, soprattutto in questo periodo, sarà anche
l’afa che mi toglie le forze…
Ormai non esco più. Da quanto tempo? Non ricordo. Settimane,
forse mesi. Sembrano secoli. Ma sono sereno qui, circondato da
cari oggetti che danno concretezza al mio mondo e sostegno al
cuore.
Da molto tempo sono relegato qui dalla mia malattia, ma col
tempo ho addobbato la mia prigione, l’ho resa comoda, l’ho
rifatta casa mia. Qui mi sento al sicuro.
Le giornate sono lunghe. Ho deciso di tenere un diario, da oggi.
È tanto che non scrivo, devo riprendere la mano. Prima scrivevo
molto, molto di più. L’imbarazzo passerà scrivendo.
5 agosto 1985 (sera). Il tempo non passa mai, mi devo
ingegnare a trovare qualcosa. I diario è già una cosa, ma non
basta. Passo troppo tempo ad osservare le pareti di questa
stanza e lo spicchio di cielo incorniciato dal lucernaio;
l’unico accesso per la luce esterna. Oblò sull’azzurro, sullo
stellato o su nubi inquiete; non mi annoia il tuo spettacolo… Mi
alzo spesso dal letto, leggo, passeggio, scrivo, misuro le gocce
di medicina, sto seduto, guardo il cielo.
Oggi ho provato a scrivere una poesia. Dopo tanto tempo. Non è
venuta.
Adesso sono stanco di scrivere, un po’ per volta riprenderò la
mano.
7 agosto 1985 (tarda mattina). Ieri non ho scritto. Stavo
troppo male. Un nuovo attacco, molto forte, credevo di
impazzire. Per fortuna è passato presto. Adesso sto abbastanza
bene. Abbastanza per rimettermi a scrivere.
Mentre me ne stavo disteso sul letto, sudato e immobile, cercavo
di fuggire il dolore seguendo con lo sguardo una mosca che, nel
tentativo di uscir fuori, continuava a sbattere contro il vetro.
Ho pensato in seguito che poteva esserci un’amara metafora.
Mi guardo intorno e ritorna il pensiero che qualcuno dovrebbe
pulire a fondo questa stanza. Troppa polvere, troppo disordine.
Sembra tutto così vecchio. Anche i miei vestiti sembrano vecchi,
molto vecchi. Cadono a pezzi. Devo muovermi con delicatezza, è
tutto così fragile. Ieri per esempio, quando sono andato a
letto, ho sentito preoccupanti scricchiolii legnosi, come se le
strutture del letto stessero cedendo sotto il mio peso.
Tra poco verrà la Signora a portarmi da mangiare. La sento già
armeggiare in cucina tra pentole e confezioni di pasta. Non ho
molta fame ultimamente, ma devo sforzarmi di ingurgitare
qualcosa: primo perché altrimenti non recupererò mai le forze,
secondo perché la Signora potrebbe offendersi e non farsi più
viva. Non mi alletta molto l’idea di morire di fame. La sento
bussare.
7 agosto 1985 (sera, prima di andare a dormire). Mi
capita sempre più spesso di trastullarmi con l’idea di uscire.
Sembra quasi che questa stanza stia iniziando a diventare
stretta per me. Mi riprendo poi da questo pensiero, mi sembra
quasi ingrato verso il mio prezioso rifugio, il mio piccolo
mondo.
Altre volte penso che potrei uscire almeno dalla stanza, dare
un’occhiata al resto della casa, almeno a questo piano. Giusto
per vedere se è tutto in ordine. Per vedere se esiste ancora il
resto della casa! So che esiste ancora, naturalmente, non sono
pazzo, ma se le cose non si vedono con i propri occhi ogni tanto
si possono trasformare in un’astrazione mentale, perdono parte
della loro concretezza. Questo vale anche per un ambiente o per
una nazione. Gli occhi e il pensiero seguono vie diverse.
So che nelle mie condizioni, non sarebbe prudente uscire dal
caldo di questa stanza, ma c’è dell’altro?
8 agosto 1985. Oggi ho parlato alla Signora del mio
desiderio di uscire. Non parliamo molto io e la Signora, lo
stretto indispensabile. Quando le parlo sembra molto a disagio,
così mi imbarazzo anch’io. Non abbiamo molto da dirci
d’altronde. Le parole sono spesso per me fastidiosi insetti che
ronzano nelle orecchie, spesso ascoltarle non vale il fastidio.
Per questo non ho né una radio né una televisione: mi basta il
mio giradischi con cui ascoltare i pezzi per pianoforte di
Chopin o il rock melodico dei Genesis.
La Signora mi ha ascoltato con lo sguardo più inquieto del
solito. Mi ha detto soltanto che non sarebbe una buona idea, che
potrei affaticarmi troppo. C’era però perplessità nella sua
voce, come una paura che si sforzasse di nascondere. Io non ho
replicato. L’ho ringraziata del brodino che mi ha preparato e
appoggiato sul tavolo e ho ributtato la testa sul cuscino.
Più tardi ho ripensato a quella strana espressione sul suo
volto.
8 agosto 1985 (notte). Ho deciso, domani esco.
9 agosto 1985 (notte). Giornata infame. L’idea di alzarmi
e scendere le scale è stata pessima.
Stamani mi sono alzato con una strana sensazione. Ho fatto
colazione a letto, mi sono lavato con più cura del solito, non
so bene perché, ed ho indossato i vestiti puliti – eppure sempre
più lisi.
Arrivato alla porta mi sono bloccato.
Congelato in quella posizione, con la mano sulla maniglia,
cercavo di convincere il mio sangue a non circolare così forte e
il mio cuore a rallentare i battiti. Sudavo, non solo per il
caldo. Respirai a fondo e insieme all’aria espirata cercai di
buttar fuori anche la paura. La maniglia non oppose resistenza.
La porta non produsse il cigolio sinistro che mi aspettavo.
La Signora era già andata via, ero solo in casa. Doveva essere
davvero molto tempo che non uscivo; il corridoio aveva un
aspetto estraneo e tetro. C’era polvere ovunque, e molto buio.
Nello scendere le scale provai una contrattura dolorosa allo
stomaco. Mi aggrappai con disperazione al corrimano di legno.
Questo scricchiolò davvero in modo sinistro.
Ad ogni passo le scale mandavano gemiti come di persone. Tutto
quel legno aveva qualcosa di marcio, sembrava star su per
miracolo. Riuscii ad arrivare al piano terra con la sensazione
di aver corso un rischio, non saprei dire con certezza il
motivo. Nella penombra riconobbi a poco a poco oggetti
familiari, ma al tempo stesso lontani e alieni, come se li
rivedessi dopo un tempo lunghissimo. Forse non esco dalla mia
stanza da più tempo di quanto pensassi.
Riconobbi l’ingresso del salotto – intravedevo dalla porta la
forma del mio sofà preferito sotto il telo bianco che lo
ricopriva – l’ingresso della sala da pranzo e, proprio di fronte
a me, il portone: pesante e severo. C’era odore di chiuso. Tutto
era in ordine, ma la polvere copriva ogni cosa: uno strato molto
spesso, tanto che ogni cosa aveva lo stesso colore grigio
smorto.
Ero in uno stato d’agitazione che rinuncio a descrivere, ma
forse sarei andato anche oltre, avrei aperto il portone.
Qualcosa mi bloccò. Provai il desiderio irresistibile di
voltarmi, risalire le scale e tornare nella stanza. Ero convinto
che se non mi fossi fermato in tempo, se non fossi tornato
indietro, sarebbe accaduto qualcosa di terribile.
Seguii l’istinto. Rimasi sdraiato, sotto le coperte, fino a
sera, cullando i miei pensieri inquieti per acquietarli. Non
dissi nulla alla Signora quando venne a portarmi su il pranzo e
la cena, né lei parve accorgersi di nulla, o non lo diede a
vedere.
Giornata infame.
10 agosto 1985. Sono molto più calmo. Dopo una buona
dormita, alla luce del sole che entra generosa nella mansarda,
mi sono reso conto di essermi comportato da stupido. Adesso è
tutto così chiaro! Cosa avevo da temere? Nulla. Mi sono solo
abituato troppo a questa stanza che, per quanto disordinata e
decadente, è diventata col tempo il mio porto sicuro, il mio
solo rifugio.
Ma là fuori non c’è niente di strano. Le persone e le automobili
continuano a percorrere la via, affaccendate nelle loro cose
quotidiane. Ogni tanto qualche aereo traccia la sua scia
nell’azzurro – lo vedo da qui, disteso sul letto – e tutto
procede con la routine di sempre. Il mondo va avanti anche sei
io sono bloccato a letto, nonostante tutto, nonostante la
tristezza, nonostante la polvere e l’odore di chiuso, nonostante
il dolore al petto che sento sempre più spesso. Nonostante che
il tempo sembri non passare mai.
La tapparella non si chiude bene: domattina mi arriverà il sole
negli occhi e mi sveglierà. Devo ricordarmi di parlarne alla
Signora, quando viene.
II – Conversazione (tradotta)
- Abbiamo saputo…
- Eh, era malato da tempo… lo sapete, anni…
- Ha smesso di soffrire…
- Eppure non soffriva molto, anzi era sereno negli ultimi
giorni. Non si può spiegare.
- Il dolore lo aveva fatto… sì insomma…
- …impazzire, sì. Meglio così. Era sereno. Quella strana mania…
- stranissima…
- Tutto quel lavoro, quel denaro, quelle attenzioni…
- Avevo paura ad entrare in quella casa, in quella stanza. Voi
non potete capire.
- Chissà come gli è venuta quella strana idea, come si è
convinto…
- voleva fuggire, ma non poteva uscire, viaggiare come ha sempre
fatto, così… l’unica direzione in cui poteva fuggire…
- chissà perché proprio… quell’epoca!
- Già.
- Che anno…?
- Mah, non ricordo bene. Mi pare cento anni fa, più o meno.
- Già.
- Condoglianze, signora. Condoglianze.
Firenze, 3-11 aprile 2006
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