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Narrativa
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi in prosa inediti,
purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
Figli col
turbo e figli in pattumiera di
Giuseppe Costantino Budetta,
L'anello di
Giuseppe Costantino Buretta,
Mario di
Antonio Carollo, Il
viaggio di Antonio Caterina,
Anche i cani hanno
un'anima di Antoine Fratini,
Intervista scoop
di Marcellino Lombardi,
L'America di
Misha, America
di Paolo Ragni, New
York! di Paolo Ragni
Poesia italiana
Poesia in lingua
Recensioni
In questo numero:
- "I passi dell'anima" di Dulcinea, nota di
MassimoAcciai
- "Ma io ti vedo" di Marinella Ioime
- "Nora Daren: Il corpo, il suo supplizio" di
Maria Rosaria Cofano, nota di Enrico
Pietrangeli
- "Cronache di attori di un teatro distratto"
di Francesco Ferrante, recensione di Emanuela
Ferrari
- "Tante notti a camminare" di Enzo Di Ganci,
recensione di Emanuela Ferrari
- "Cocktail Poesie e Pensieri" di Gaetano Toni
Grieco, recensione di Emanuela Ferrari
- "Oltre il cielo dei giusti" di Simone Sutra,
recensione di Paolo D'Arpini
- "L'uomo dei piccioni " di Salvatore Scalisi
- "La ragazza della tempesta" di Fabrizio
Valenza
- "Nel buio delle tubature" di Alessio
Pollutri
- "Alvar Mayor (Maestri del Fumetto #38)" di
Carlos Trillo e Enrique Breccia
Interviste
Dulcinea
intervista a cura di Massimo Acciai
Riccardo Burgazzi
intervista a cura di Alessandro Rizzo
Incontri nel giardino
autunnale
Saggi
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Mario e le terribili immagini di
quel che gli successe in tenera età in una limpida
giornata di giugno occupano un posto speciale nei
miei ricordi..Era un ragazzino curioso e
intraprendente. Aveva capelli ricci e folti, color
castano chiaro; la bocca regolare, una fossettina
sul mento ben disegnato. Nel gioco era vivace e
pieno di iniziative. Spesso era lui a trascinarci in
avventure spericolate, come il giro di corsa per le
vie del paese spingendo con un filo di ferro, u'
carruzzinu, cioè un cerchio di ruota di triciclo, e,
per i più fortunati, un cerchione di bicicletta.
"Chi arriva primo alla Chiesa e ritorno: pronti,
via!". E giù a rotta di collo sulle strade sgombre e
senza traffico ma quasi tutte sterrate e in qualche
punto pietrose. Nella foga qualcuno inciampava e
finiva lungo disteso, ma si rialzava immediatamente,
una pulitina ai ginocchi con la mano per togliere la
polvere o levare il sangue e via con più veemenza a
recuperare il ritardo. Mario aveva perennemente i
ginocchi sbucciati e pieni di crosticine. Del resto
come tutti noi..Qualche volta, all'inizio della
primavera, l'intera combriccola, Mario, Franco,
Ignazio, Salvatore, Nino, Giacomino e me, filava
fuori paese, "Andiamo a' Maronna!". La Madonna delle
Grazie era una chiesina del Seicento posta al limite
dell'abitato dalla parte di Termini. Quella parola
d'ordine in realtà indicava un blitz fuori paese,
con qualche puntatina, per i più audaci, verso i
mandorli che punteggiavano l'oliveto ai margini
della statale. I prescelti a penetrare in quella
proprietù tornavano con le tasche piene di mandorle,
da distribuire agli altri, e con qualche dolorino di
stomaco per la robusta scorpacciata (in quel periodo
la drupa e il nocciolo erano teneri e gustosi) ;
l'incursione si faceva con cautela e rapidità per
paura dei padroni in agguato o delle guardie
campestri. Ritornavamo a casa stanchi sudati e
impolverati. Mia madre mi metteva la testa sotto il
rubinetto e mi lavava il viso con tanta energia che
a volte mi faceva male. Mario era sempre in tandem
col fratello Franco, maggiore di qualche anno. I due
non si somigliavano molto. Il primo era snello e
scattante, l'altro era tarchiatello, il viso
squadrato, le labbra sottili, calmo e
condiscendente; non velocissimo, ma non si tirava
mai indietro.
A volte ai giochi di noi maschi si univano le
cuginette Pina, Terina, Giannina, Anna, specie
quando si giocava ai quattro cantoni.. Davamo noia
ad un invalido di guerra con una gamba di legno, che
si muoveva in una sua stanzuccia a pianterreno con
due pesanti grucce. Lo facevamo arrabbiare con dei
versacci o bussando alla sua porta. Lui ci gridava e
ci minacciava alzando una gruccia. Lo bersagliavamo
ma ne avevamo paura. La sua stanza era per noi un
antro pauroso e lui un orco. Ci faceva senso vedere
tutti i giorni una sua nipote entrargli
tranquillamente in casa, senza paura, con
l'involucro del pasto per mano. Una volta,
esasperato, ci lanciò contro una gruccia, inveendo.
Intervenne zia Pippina sgridandoci aspramente e
riportando la gruccia all'invalido, che chiamavamo
lo sciancato. L'abitazione della zia, ed anche
ovviamente dei miei cugini, sorgeva a due passi, di
fronte a quella dello sciancato. Era una costruzione
tipica di Trabia: un pianterreno, un primo e un
secondo piano con terrazzo. Di particolare aveva in
più un mezzanino che qualche volta zia Pippina ci
faceva usare per giocare. La zia era una trentenne,
i capelli lisci e lunghi raccolti in un nodo
complicato dietro la nuca, una veste fin sotto i
ginocchi, a colore e fiorellini, su cui quasi sempre
indossava un un grembiule da cucina, i lineamenti
ben marcati; non poteva badare molto a noi perché
aveva, in quell'epoca, sette figli di cui quattro
piccolissimi, e non aveva un attimo di respiro,
anche perché il marito, zio Peppino, era sempre a
Palermo, totalmente preso dal suo lavoro di
commerciante (partiva la mattina col buio per
prendere il primo treno e ritornava la sera col
buio): nel dopoguerra non era uno scherzo mandare
avanti una famiglia di nove persone. La zia ci
teneva a che non disturbassimo il povero invalido,
per cui un po' ci sorvegliava; era puntuale come un
orologio a chiamarci all'ora della merenda,
costituita da fette di pane con formaggio, o
marmellata, e frutta. Io rimanevo fuori, in strada,
ma lei immancabilmente mi chiamava e mi faceva
prendere la stessa merendina. Era energica e severa,
ma guardava noi bambini con una luce negli occhi.
.A volte ci ritrovavamo in contrada Cozzo Corvo, in
una proprietà di nonno Mariano. Scorrazzavamo per
l'oliveto, la vigna, il frutteto e per i campi di
stoppie attraverso la collina sulla quale due grandi
massi ne segnavano il punto più alto. Loro erano più
scatenati di me perché, vivendo in paese tutto
l'anno, più affamati di campagna e di libertà. Io
conoscevo a menadito il campo d'azione perché vi
passavo in villeggiatura la stagione estiva, nella
casa di mio padre vicina a quella del nonno. Li
guidavo ai nidi di passeri, cardellini, merli,
fringuelli, andavamo sulle tracce dei conigli
selvatici i cui escrementi qua e là ci segnalavano
la loro presenza; qualche volte li vedevamo scappare
da un cespuglio a lunghi veloci saltelli e
scomparire in lontananza; ci arrampicavamo sui
grossi massi in cima alla collina e salutavamo
festosamente i passanti laggiù sulla strada di
Amureddu in groppa alle loro bestie o sui carretti;
il fischio del treno in arrivo al passaggio a
livello di Pilieri ci faceva piombare ai bordi della
ferrovia per salutare i passeggeri affacciati ai
finestrini. Ci affascinava la locomotiva sbuffante
di vapore con quel bel pennacchio di fumo e il suo
ansare sull'ampia curva un po' in salita che
immetteva sul rettilineo per Trabia; e quei
viaggiatori che rispondevano ai nostri gesti di
saluto, che ci sembravano appartenere ad un mondo
fatato. Quando c'erano anche le tre cuginette
allestivamo un'altalena sotto una chianca d'olivo e
giù a spingere per arrivare più in alto, oppure
giocavamo a nascondino nella grande casa del nonno
dove i posti per nascondersi non mancavano o
andavamo a caccia di frutta. Mario era sempre tra
gli animatori, pieno d'inventiva per nuovi giochi:
andiamo al treno!, andiamo alla vigna!, facciacciamo
le corse! e tutti dietro.
La disgrazia successe proprio al Cozzo Corvo. Era
finita la scuola e mio padre il giorno dopo mi portò
con sé in campagna dove tra pochi giorni ci saremmo
trasferiti per la villeggiatura. La mia gioia andò
alle stelle quando all'arrivo alla nostra casa vidi
Mario correre verso di noi. "Ciao zio, ciao
Antoniucciu", e, rivolto a me: " Andiamo, ti faccio
vedere una cosa". Saltai dal carretto e corsi via
insieme a lui in mezzo all'oliveto mentre mio padre
mi diceva che sarebbe andato a San Miceli, che
l'aspettassi per il pomeriggio. Mario mi portò oltre
la vigna, sotto un mandorlo. "Ecco, guarda cosa c'è
qui", mi mostrò un foro sotto un ciuffo d'erba. "E'
la tana di un coniglio; vedi questi peli grigi ai
bordi?, sono suoi. Qui intorno ci sono le sue
cacatine". Si chinò e introdusse la mano nella tana,
fino a farvi scomparire l'intero braccio. "Forse è
in giro, oppure si è ritirato in fondo. Sono furbi i
conigli, che ti pare". Dissi: "Che facciamo?", alzai
una mano e presi una mandorla, schiacciai la drupa
tra i denti, dentro il nocciolo il seme era
molliccio, troppo presto per mangiarlo. "Aspettiamo,
prima o poi uscirà e noi lo prenderemo". "Ma che
dici, e se è fuori? Lui ci ha già fiutato".Ci
sedemmo davanti alla tana.. Dissi: "Tu non lo sai,
io qualche giorno fa ho preso un coniglio con le
mani". "Non ci credo". "Domanda a mio padre", e gli
raccontai come avevo fatto.
Era stata una cosa elettrizzante. Mio padre, ma
anche il nonno e gli zii, irrigava il frutteto
trasportando l'acqua a mezzo di un motore elettrico
e di una tubazione da una cisterna, alimentata
dall'acqua di Trabia, dai piedi del declivio fino ad
una gebbia (vasca) posta più in alto, a qualche
centinaio di metri. Dalla gebbia si diramava una
condotta che permetteva l'irrigazione della
proprietà di mio padre. Ogni anno, ovviamente, c'era
una prima volta, cioé la prima irrigazione
stagionale della tenuta. Quell'anno mio padre mi
portò con sé. Si sarà accorto di qualcosa, non so;
mi disse che forse una coppia di conigli aveva fatto
la tana proprio dentro il tubo dell'acqua; dovevo
stare attentissimo, pronto con le mani ad
acchiappare il coniglio che, se c'era, sarebbe
uscito al momento dello sbocco dell'acqua nella
vaschetta di distribuzione; bisognava parare
l'imboccatura della condotta con tutt'e due la mani,
senza un attimo di distrazione. "Attento che il
coniglio ti può sgusciare via contorcendosi e usando
le zampette", mi disse mio padre e s'avviò verso la
casetta del motore, laggiù vicino alla ferrovia. Il
cuore cominciava a battermi. C'era ancora del tempo,
ma io mi sedetti sul muricciolo della vaschetta e mi
chinai con le mani davanti al buco. Mio padre era un
quarantenne, robusto e con discreta pancetta, non
certo un campione di velocità. I miei orecchi erano
tesi a captare il minimo borbottìo dell'acqua che
sarebbe arrivata spingendo fuori l'aria. Nessun
rumore, solo il canto dell'allodola e il cinguettìo
degli altri uccelli. Mio padre doveva scendere alla
casetta del motore, prendere la paratoia,
attraversare la ferrovia, metterla sul condotto
dell'acqua, proveniente dal paese, per deviarla
verso la cisterna, ritornare alla casetta, attendere
che la cisterna si riempisse per metà, accendere il
motore.. Il tempo ci voleva. Il fischio di un treno
mi avvertì dell'inevitabile allungamento dei tempi.
Pazienza. Io stavo lì, sempre chino con le mani
pronte: che non scappasse il coniglio prima
dell'arrivo dell'acqua. Il rumore del treno non
finiva mai. Doveva essere un treno merci. Un lieve
tramestìo, una lucertola uscì di corsa sfiorando le
mie mani. Mi ritrassi di scatto ma mi rimisi subito
nella posizione di prima. Quanto tempo passò?
Cinque, dieci, quindici minuti? A me parve
un'eternità. Finalmente il borbottìo. Il cuore ebbe
un'accelerata battendomi sulle tempie. Le mani
rigide pronte alla presa. L'acqua cominciò a
scorrere, niente coniglio, ma il tubo in pochi
attimi si sarebbe riempito d'acqua; se c'era non
avrebbe avuto scampo. Un urto sulle mani, le dita si
chiusero come artigli. Stringi, stringi, il
coniglietto squittiva lamentosamente, si contorceva,
cercava di scivolarmi tra le dita aiutato dal pelo
fradicio d'acqua, si dava da fare con le zampette,
ma la mia presa era una morsa. M'invase un'ondata di
eccitazione e di felicità. "Papà Papà, l'ho preso,
l'ho preso!" Diedi un balzo dalla vaschetta
d'irrigazione e corsi sul campo di stoppie. Il
coniglio squittiva; gli guardavo il capo che
scuoteva freneticamente, gli occhietti erano pieni
di terrore, non s'arrendeva. Forse lo stavo
ammazzando, gli strizzavo troppo la pancia, allentai
leggermente i miei artigli. "Papà, vieni vieni,
guarda!". Mio padre arrivò trafelato, e, anche lui,
eccitato: "Bravo'Ntunuzzu!, dammelo a me; ci penso
io. Tu intanto bada all'acqua chiudendo con la zappa
via via le caselle che si riempiono". Prese il
coniglio per le zampe posteriori e lo tirò su
penzoloni. "Bel coniglio!" Era un esemplare lungo,
adulto, forse una femmina. Io non staccavo gli occhi
dalla bestiola che s'agitava e scuoteva
energicamente tutto il corpo.Mio padre s'avviò verso
casa che era a dieci passi dicendomi: "Ora vengo,
stai attento all'acqua, fai riempire bene le
caselle, le piante sono assetate!". Tornò dopo una
decina di minuti. "E il coniglio?" gli chiesi. "L'ho
appeso al chiodo della stalla". Fu come se
m'avessero dato una pugnalata. "L'hai ammazzato!".
Lasciai il giardino (frutteto) e scappai in mezzo
agli ulivi. Mio padre mi gridò dietro: "'Ntunuzzu, i
conigli selvatici non si possono allevare, sono
soltanto selvaggina; vedrai domani come sarà buono a
tavola. La mamma lo sa cucinare bene. Dove vai?".
Rimasi un bel po' di tempo sotto un grosso ulivo,
poi, con l'umore a terra, cominciai ad errare sulla
collina. Nel tardo pomeriggio tornai a casa. Lo vidi
penzolare dal chiodo, immobile. Sapevo come si
ammazzavano i conigli, la mamma me l'aveva detto
tante volte: un pugno in testa ed era bell'e morto,
dopo qualche attimo di scuotimenti. Girai gli occhi
e non volli più vederlo. Durante il viaggio di
ritorno al paese non spiccicai una parola. Il giorno
dopo mangiai solo pasta, verdura e frutta,
rifiutando il coniglio in umido che invece deliziò
genitori e fratelli.
"Tu l'hai mai preso un coniglio con le mani?"feci a
Mario. "No, ma io non ho un posto dove prenderlo. Io
l'avrei tenuto quel coniglietto". "Te l'ho detto, i
conigli selvatici non si allevano". "Non è vero, io
sarei scappato, non l'avrei dato a mio padre". "Vabbe',
allora perché non allevi qualche coniglio
domestico?". "E dove?, a casa mia? Andiamo al
gippone". "Sì andiamo, facciamo a chi arriva primo".
E via di corsa lungo il pendio fino ai piedi del
colle dal lato est. Il gippone era un residuato
bellico, abbandonato lì dai soldati americani.
Rimaneva lo scheletro: vi erano stati asportati il
motore, le ruote, i sedili, il volante, gli
sportelli ai lati del cassone. Arrivai prima io,
perché avevo due anni in più ed ero uno dei più
veloci tra i miei compagni di scuola. Mario non
sembrò affatto contrariato, Salimmo su quel rottame
e a turno facemmo le finte di guidarlo imitando con
la voce il rumore del motore; lo ispezionammo ben
bene per vedere se c'era qualcosa di utile da
prendere.
Dopo un po' via come frecce verso l'albero di fichi
in cima al campo di stoppie, sotto la cui ombra ci
sedemmo. "Vedi là", feci segno con la mano,
"all'orizzonte, dove finisce il mare? Durante la
guerra una nave sparava cannonate, mentre un aereo
mitragliava vicino casa mia. Mio padre ci fece
sfollare alle grotte di Burgio" "I nostri soldati
dov'erano?". "Mah.... Prima dell'arrivo degli
americani ho visto un tedesco scendere da un camion,
davanti al bar di Sari' Di Vittorio. Aveva l'elmetto
e la baionetta. Un bambino gli chiese qualcosa e lui
disse: "Nix, nix..." . "Nonno ha detto che ci sono
stati tanti tradimenti, se no l'Italia vinceva". "Lo
sai che tutto u' Cozzu Corvu era pieno di soldati
americani?" dissi io. "Lo so, lo so". "C'era la
guerra, ma loro erano amici. Ci davano tante cose
buone. Non facevano male a nessuno". "Però prima
avevano buttato le bombe anche a Trabia e ucciso
diverse persone. Una bomba è cadutta sulla casa du
paranni e da maranni". "Quelli delle bombe erano
altri, questi qui non sparavano, stavano nelle loro
tende; attendevano ordini; non andavano al fronte
perché erano meccanici". "Zio Pinù l'hanno mandato
in Russia ed è disperso. Che significa?". "Che si è
perso o è morto e non l'hanno riconosciuto. Nonno
dice che forse si è salvato ed ora si trova a Mosca,
sposato e con figli. Chi va in Russia non può più
tornare, ma lui aspetta sempre. In America è
diverso, tanti miei parenti abitano lì. Lo sai che
un giorno un mio cugino, Sam, figlio di mia zia Titì
di Pittsburgh, sergente nell'esercito americano,
venne in licenza in aereo da Napoli? Mia madre
l'abbracciò e si mise a piangere. Gli fece un bel
pranzo, pasta col sugo di pomodoro, triglie ai ferri
con olio e limone, melanzane alla parmigiana,
caluzzeddi fritti, frutta, vino e caffé. Lui diceva
grasie grasie, thank you, ed era tutto contento. Non
parlava bene 'u sicilianu ma si faceva capire.
Accorsero per conoscerlo i parenti di mia madre;
erano incantati da quel bel giovane. Portava gli
occhiali, aveva il viso pieno, un bel sorriso, era
ben rasato e profumava di acqua di colonia. Ci
guardava con affetto e curiosità; forse gli
sembravamo gente di un altro mondo. Indossava una
elegante divisa cachi, pantaloni, camicia e
cravatta, col grado di sergente attaccato sul petto
e sulle mostrine. Era alto, capelli e occhi castani.
Estrasse un pacco dalla valigia e lo mise sul
tavolo, lo scartò e venne fuori un ben di Dio: un
vestito per mia madre, una cravatta per mio padre,
una maglietta per me, una gonna per la sorella e un
berretto per il fratello, scatolette di carne,
pacchetti di caramelle e cioccolato, una stecca di
sigarette. Mia madre, ed anche noi, guardava tutta
quella roba con occhi luccicanti: "E' tutto per
noi?" disse e di nuovo abbracciò e baciò suo nipote.
Sam scattò tante fotografie. E' stato lui a farmi la
fotografia della prima comunione; veramente l'avevo
passata due anni prima, ma c'era la guerra e non si
trovavano fotografi. Mia madre andò a prendere il
vestito bianco, pantaloncini lunghi e giacchetta con
le dorature e mi fece fotografare davanti alla porta
di casa; però i pantaloncini ormai mi stavano corti
e al posto delle scarpe avevo gli zoccoli".
Mario disse: "Se era tuo cugino perché è venuto a
farci la guerra?". Risposi: "I soldati devono
ubbidire ai loro comandanti, se no li fucilano; gli
americani sono venuti a liberarci". "Mah... non
eravamo liberi?". "Lo zio Luigi, che abita di fronte
a casa mia, ha detto che ci hanno liberato dal
fascismo, però non per farci un favore ma per
comandare loro; lui queste cose le sa perchè ascolta
tutti i giorni la radio e legge il giornale". "Vabbe'..."
Due grossi uccelli strillando si posarono su un ramo
in cima all'albero; un attimo dopo volarono via,
spaventati dalla nostra presenza. Li seguimmo con lo
sguardo. "Sono marito e moglie" dissi. Il cielo era
incendiato da un sole implacabile, ma sotto il fico,
all'ombra, si stava bene, una fresca brezza di mare
ci carezzava il viso; le cicale stridevano senza mai
smettere. Mario si alzò stiracchiando le braccia.
"Cerchiamo sotto gli ulivi, potremmo trovare qualche
oggetto lasciato dai soldati. Certi ragazzi hanno
trovato degli apparecchietti di metallo con lo
scatto, servono per lanciare lontano dei sassetti ",
disse. "Mia madre mi dice sempre di non toccare le
cose lasciate sul terreno dagli americani, possono
essere delle bombe, ma a me piacerebbe avere una
macchinetta come quella che dici tu", dissi. "Vieni,
andiamo a cercare". Si alzò e andò verso l'oliveto
un tempo occupato dagli attendamenti dei militari
americani. "Ho sete, vado a bere dal nonno; vengo
subito", risposi. Mi diressi di corsa verso la casa
sottostante di cui si vedeva solo il tetto di tegole
rosse. Volevo far presto. Ero invidioso dei ragazzi
in possesso di quei piccoli congegni residuati con
cui giocavano orgogliosi. Tante volte m'ero messo a
cercarli, ma niente.
Trovai nonno Mariano che a piccoli passi
strascicati, aiutandosi con un bastone e una
zappetta, stava andando a sedersi sulla ghiuttena
(sedile di muratura) di casa. I pochi capelli,
ancora scuri, gli cascavano sulla fronte sudaticcia.
Con un ultimo sforzo riuscì a sedersi. Aveva fatto
il suo solito giro del frutteto ed era stanco. Per
lui era un'impresa perché da tanti anni aveva le
gambe quasi paralizzate. Diede un sospiro di
sollievo: "Aah, 'Ntunuzzu, dov'é Mario?" Gli dissi
che era nell'oliveto e che prendevo un bicchiere
d'acqua dalla brocca. Bevvi con avidità. "Senti, 'Ntunuzzu,
tuo zio Mané sta lavorando nel giardino e ritarda;
ormai tu sei grande, prendi il mulo e lo porti a
bere alla gebbia, va bene?", mi disse guardandomi
con un sorriso. Non me lo feci ripetere. Andai nella
stalla sotto la pinnata (copertura in muratura
sorretta da pilastri), slegai la corda della cavezza
dall'anello della mangiatoia e mi avviai alla gebbia.
Il mulo era un bel baio giovane, il pelo lucido, una
discreta pancia, una criniera lunga; non stava fermo
con la testa, quasi mi strappava le redini, ma io
non mi facevo intimidire: gli davo voce e gli tiravo
le redini. Mio padre mi aveva detto che con le
vestie non si deve avere paura sennò se ne
approfittano e sono capaci di dare dei morsi o del
calci; invece deve comandare l'uomo. Io ero felice e
mi sentivo forte, però stavo attento che non si
prendesse troppa confidenza. Forse Ciccio capì
l'antifona perché dopo aver fatto qualche capriccio
agitandosi un po' si mise a camminare tranquillo
dietro di me. La gebbia era piena d'acqua, l'agitai
un po' con la mano per allontanare qualche frasca.
Ciccio si mise a bere di buona lena. Sentivo il
rumore dell'acqua che passava attraverso l'esofago.Ad
un tratto un terribile botto lacerò l'aria. Io mi
sentii morire. Ciccio diede uno scarto alzando la
testa. Un attimo dopo udii delle urla disperate.
Pensai a Mario, aveva trovato una bomba? Sgomento,
legai il mulo ad un palo di legno e corsi verso la
casa del nonno. Vidi zio Manè correre verso
l'oliveto e poi scendere con Mario in braccio.
Quando arrivai zio Manè stava svuotando un fiasco di
vino su una mano del bambino, ridotta ad un'informe
massa sanguinolenta con brandelli di ossa e carne
penzoloni. Mio nonno era come impazzito, gridava:
"Stringi forte il polso con i fazzoletti, prendi
l'asciugamano. Fai presto!". Mario urlava. Io non
sapevo cosa fare. Cercai in casa con furia uno
asciugamano, lo trovai e lo diedi allo zio. Mario
dopo un po', forse per l'effetto dell'alcol
contenuto nel vino, smise di urlare e cominciò a
lamentarsi sconsolatamente. Il nonno disse: "Manè,
portalo subito sulla strada statale, chiedi un
passaggio e vai all'ospedale a Termini. Maliritti
sti miricani!", e lanciò con forza il bastone verso
la stradella. Io dissi: "Vado pure io", ma il nonno
scosse la testa: "Tu sei piccolo, non puoi fare
niente". Zio Mané, così com'era, con gli indumenti
da lavoro, prese in braccio Mario e si avviò sulla
stradella per scendere alla ferrovia e da lì alla
statale. Lo vidi svoltare all'altezza della gebbia.
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