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Narrativa
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi in prosa inediti,
purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
Figli col
turbo e figli in pattumiera di
Giuseppe Costantino Budetta,
L'anello di
Giuseppe Costantino Buretta,
Mario di
Antonio Carollo, Il
viaggio di Antonio Caterina,
Anche i cani hanno
un'anima di Antoine Fratini,
Intervista scoop
di Marcellino Lombardi,
L'America di
Misha, America
di Paolo Ragni, New
York! di Paolo Ragni
Poesia italiana
Poesia in lingua
Recensioni
In questo numero:
- "I passi dell'anima" di Dulcinea, nota di
MassimoAcciai
- "Ma io ti vedo" di Marinella Ioime
- "Nora Daren: Il corpo, il suo supplizio" di
Maria Rosaria Cofano, nota di Enrico
Pietrangeli
- "Cronache di attori di un teatro distratto"
di Francesco Ferrante, recensione di Emanuela
Ferrari
- "Tante notti a camminare" di Enzo Di Ganci,
recensione di Emanuela Ferrari
- "Cocktail Poesie e Pensieri" di Gaetano Toni
Grieco, recensione di Emanuela Ferrari
- "Oltre il cielo dei giusti" di Simone Sutra,
recensione di Paolo D'Arpini
- "L'uomo dei piccioni " di Salvatore Scalisi
- "La ragazza della tempesta" di Fabrizio
Valenza
- "Nel buio delle tubature" di Alessio
Pollutri
- "Alvar Mayor (Maestri del Fumetto #38)" di
Carlos Trillo e Enrique Breccia
Interviste
Dulcinea
intervista a cura di Massimo Acciai
Riccardo Burgazzi
intervista a cura di Alessandro Rizzo
Incontri nel giardino
autunnale
Saggi
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Racconto horror ambientato nel
cimitero di Poggioreale. Napoli, 1982.
Pensai a un vecchio film in bianco e nero dove un
giovane di nome Orfeo perdeva l'amata Euridice
durante il carnevale di Rio. Euridice era stata
uccisa, ed il suo amante la cercò per tutta la città
finché non ne trovò il corpo. Secondo i poeti
dell'antichità, è possibile cercare l'amore e si può
amare anche all'inferno. L'amore che tutto vince
deve poter vincere in qualche modo l'inferno
medesimo. Orfeo va a cercare Euridice all'inferno.
Pensai: il mito di vincere la morte con la forza
dell'amore è commisto alla natura dell'uomo.
Il funerale di Marina si tenne il sabato diciannove
febbraio del 1982 alle 11,00 del mattino. Era
deceduta il pomeriggio di venerdì. Dopo il funerale,
senza farmi la barba mi ero messo a camminare per le
strade di Napoli. Camminare, camminare e camminare
come uno schizofrenico, uno sbandato senza meta.
Feci a piedi tutta Via Roma, da Piazza Dante fino a
Piazza Plebiscito che per il cattivo tempo, era semi
deserta. Attraversai la Galleria Umberto I, scesi
per Piazza Municipio e mi diressi per il Corso.
Pensai alla morte. Nel policlinico di Roma, mi
capitava di osservare persone colpite da gravi
patologie spegnersi senza che nessuno potesse farci
niente. Marina era precipitata nel lago della morte.
Sicuramente il suo cervello, aveva cercato di
aggrapparsi alla vita. Lottò contro l'inesorabile
fine. Si sforzò d'invocare aiuto, ma non poté
gridare. Cercò di muoversi, ma non ne ebbe la forza.
Le acque del lago oscuro, si chiusero sopra di lei...Infarto
miocardio acuto fu l'infausta diagnosi. Ero già nei
pressi della Stazione Centrale gremita di gente con
le valigie piene: partire è come morire. Dalla
Stazione Centrale, tornai in albergo. Erano quasi le
14. Non avevo fame, né sonno: steso sul letto, col
cappotto addosso. Dovevo rivederla. Era morta mentre
stavo a Roma per lavoro. Tutto era precipitato
all'improvviso. Ero stato avvertito il giorno dopo e
quel sabato mattina avevo fatto appena in tempo ad
assistere al suo funerale nella Chiesa di Santa
Chiara a Napoli. Mi decisi. Dovevo mantenere la
promessa. Avevo in tasca l'anello compratole per il
nostro fidanzamento ufficiale.
Avevo prelevato parte dei miei risparmi. Dovevo dare
minimo un milione di lire al becchino. Gli avrei
firmato un assegno. Alle 16 del pomeriggio stavo
davanti al cimitero di Poggioreale. Parlai con uno
di loro, scelto tra i più adescabili. In realtà,
erano tutti corrotti e molti, o tutti affiliati alla
camorra. Mi avvicinai ad uno macilento, pallido come
la morte, con faccia scavata e spalle curve. Il
becchino mi condusse in un posto appartato. Mi fissò
con occhi da fare pietà, si fece ripetere quello che
avevo intenzione di fare. Confessai che volevo
vedere per l'ultima volta la mia amica il cui
feretro era stato portato in cimitero quella
mattina. Mi mostrai prostrato e distrutto dal
dolore. Lo ero veramente, ma accentuai la gravità
delle emozioni e dei sentimenti. Dissi che per il
servizio gli davo un milione di lire. Disse:
"E' un lavoro un poco difficile. Voglio un milione e
mezzo di lire. E' pericoloso..."
"Va bene. Pagherò tramite assegni bancari. Non ho
contanti addosso."
"Non voglio sapere niente. Metà della cifra con un
assegno bancario e metà in contanti. A me servono i
soldi subito."
Pensai di fare bancomat. Addosso avevo un bel po' di
soldi. Avrei pagato l'albergo con la carta di
credito. Dissi di sì.
"Vediamoci stasera alle nove e mezza. Portate con
voi i soldi se no non si fa niente."
La sera ci vedemmo davanti al cancello del cimitero.
Faceva freddo. Era il diciannove di febbraio e
cominciava a salire la nebbia. Davanti al cimitero,
rare macchine passavano diretta verso Granturco o
verso la Stazione Centrale. A tratti piovigginava.
Il custode, o il becchino era lì che aspettava con
un cappottone nero, le mani in tasca, una sciapa ed
il collo tirato nel bavero sollevato.
Mi condusse alla cappella di famiglia dov'era stata
deposta la bara di Marina. Era buio e dovevo fare
attenzione a non scivolare sulla terra fangosa e
grassa. Il cielo coperto da uno strato uniforme di
nuvole cineree e nella cappella mancavano finestre.
Luce irreale veniva dai candelabri intorno alla bara
poggiata sul pavimento. Mazzi di fiori e corone
intorno al feretro. Nelle pareti laterali coperte di
lastre di marmo, c'erano i loculi degli antenati
Ruggiero. Una delle pareti era stata coperta di
corone fresche. Il becchino disse che si doveva far
presto. Doveva porre la bare nel suo loculo, dietro
la lastra di marmo e sigillarla col cemento a presa
rapida. Disse che non voleva rischiare. C'era da
schiodare una bara e se lo avessero visto, sarebbe
finito diritto in galera, oppure sparato da un
camorrista. Disse: "Sono cose delicate. Adesso in
giro non c'è nessuno. Dobbiamo fare presto."
Gli diedi mezzo milione di lire come anticipo. Il
resto lo avrebbe avuto al termine dell'operazione.
Disse tossendo:
"Oggi è arrivata parecchia gente a portare i fiori
sulla bara della defunta che voi desiderate vedere.
Sapete, ho tenuto d'occhio tutta quella gente per
capire se c'era tra loro qualche delinquente, invece
era tutta gente per bene. Questo è positivo perché
nessuno di quei signori controllerà il mio lavoro.
Non è che quando lavoro sto sotto sorveglianza, ma
se si tratta di persone per bene, tutto è più facile
e meno rischioso. Se invece si tratta di un
camorrista, mi mettono sempre nei fianchi qualcuno,
oppure arrivano i muratori appositamente pagati."
Cambiando tono, disse: "Dobbiamo fare presto. Però
mi dovete dare tutta la somma pattuita."
"Si, ma dovete finire il lavoro che vi ho chiesto.
Pagherò dopo che avrete schiodato la bara."
Disse di aspettarlo per alcuni minuti perché doveva
andare a prendere in ufficio gli attrezzi e la
chiave. Ricomparve come aveva promesso dopo poco,
come un fantasma senza fare rumore. In una mano
stringeva una spranga di ferro che era un piede di
porco, nell'altra un martello e dei chiodi. Non
perse tempo. Spostò alcune corone che potevano
dargli fastidio e alla luce dei ceri, con la spranga
assestò alcuni colpi ai lati della bara. Alla fine,
fece leva col piede di bue e il legno del coperchio
cedette scricchiolando. Il becchino poggiò il
coperchio alla parete.
Disse: "Adesso dovete darmi la somma pattuita."
"Vorrei restare alcuni minuti da solo."
"Prima i soldi."
Era nervoso, si stava spazientendo e ansimava.
Cacciai fuori il libretto degli assegni, ne firmai
uno che riportava la somma pattuita. Glielo diedi.
Andò a controllare al lume di una candela. Disse:
"Banca di Roma. Bene. Mi sembra buono. Se non è
buono passerete dei guai."
Sorrise soddisfatto, mostrando la fila dei denti
tarlata. Invece di andare via si avvicinò alla
morta. Con un gesto rapido sollevò la gonna e
tirandola in su, mise in bella mostra le rigide
cosce del cadavere fino alle mutande. Disse: "Roba
buona, eh?"
"Ma che fate. Mettete giù subito."
Ubbidì tirandosi il collo nel bavero del cappotto
come una tartaruga impaurita. Disse solo:
"Pensavo che foste uno che voleva guardare la morta
com'era fatta sotto e farsi una sega davanti al
cadavere. Scusate l'errore!"
"Sentite. Adesso voglio essere lasciato solo. Voglio
vedere la morta per l'ultima volta e pregare per la
sua benedetta anima. Ho dentro un rimorso che solo
qui, davanti alla morta mi posso togliere. Me l'ha
imposto San Gennaro in sogno."
"Ah! Va bene. Se è così fate pure".
Il becchino che forse non era becchino, ma uno dei
custodi del cimitero, capì che non ero un depravato,
di quelli che pagano per fare oscenità sul corpo
delle giovani defunte. Con alzata di mani di chi fa
intendere di volersi scusare, disse: " Torno tra
dieci minuti. Vanno bene dieci minuti?"
"…Facciamo un quarto d'ora."
Il suo cadavere ai miei piedi nella luce fioca.
Aveva la gonna nera fino agli stinchi. Sembrava una
scolaretta che posa rigida davanti alla macchina
fotografica insieme con le amichette. Invece stava
sola, fredda e immobile, nell'attesa che le carni
divorate dai microbi, scomparissero, polvere nella
polvere. Nebbia evanescente, la sua esistenza era
immersa nei veli del tempo transeunte e s'inabissava
sempre di più, di giorno in giorno. Il rigido corpo
insensibile al mio disperato richiamo. Restava il
ricordo di lei congiunto al passato. Il suo aspetto
era stranamente ancora bello, incontaminato e dolce,
nonostante il biancore di morta. E, c'era la mia
angoscia ostinata. Si può violare ciò che la morte
suggella per sempre? Sotto il velo nero intravidi
gli occhi che sembravano dormire. Le guance s'erano
un po' ritratte e la faccia aveva assunto aspetto
inconsueto. M'inginocchiai su di lei, le scostai il
velo fin sulla fronte e le diedi l'ultimo bacio
sulle labbra. Sotto l'attenzione dei miei occhi, il
suo viso s'affilava. M'illusi di cogliervi un
sorriso: ciò che noi definiamo anima, m'aveva
aspettato prima di spiccare il volo. Piansi. Le
lacrime fecero improvvisa irruzione. Stavo
dimenticando il motivo per cui ero lì. Prima che il
becchino facesse ritorno da un momento all'altro,
sfilai uno dei guanti dalla mano della morta
infilandole l'anello. Dissi:
"Marina, c'è un indelebile legame tra noi. Questo
anello e' il sigillo del nostro amore eterno."
Cominciò a girarmi la testa. Mi stava venendo un
attacco di panico. Lo stress, la tensione nervosa,
la presenza del suo corpo ancora così bello... Mi
appoggiai con le spalle e le mani alla parete di
marmo. Il pavimento cominciò ad ondeggiare e con
esso la bara ed il cadavere. Mi parve che la morta
aprisse gli occhi e mi fissasse in un'espressione
stupita. Volevo gridare. Mi mancò il fiato. Ebbi uno
strattone al cappotto. Sobbalzai. Era il becchino.
"Vi sentite bene? Che avete? Sembrate impaurito."
Quelle parole mi riportarono alla realtà.
"Mi girava un po' la testa. Adesso sto meglio".
"Meno male! Ci mancava che foste morto anche voi per
l'emozione."
Accennai ad una preghiera davanti alla defunta. Il
becchino afferrò il coperchio e lo inchiodò alla
meglio sulla bara.
"Adesso dovete aiutarmi a sollevare la bara per
disporla in quel loculo."
Sollevammo la bara e la sistemammo in un loculo
vuoto a circa un metro da terra. Il becchino aveva
con sé una scopa. Pulì il pavimento di marmo nero,
evitando di lasciare tracce di schegge legnose ed
andò a buttare la spazzatura in un posto lontano
dalla cappella. Ritornò e disse:
"Adesso dovete andarvene. Io resterò qui a murare la
bara. Ho di là mattoni e la calce. Per domani
mattina sarà tutto a posto e nessuno avrà sospetti…
Vi accompagno all'uscita del cimitero."
Davanti al cancello disse: "Giuratemi di non dire
niente a nessuno. Giuratemelo su San Gennaro."
"Lo giuro."
"Dovete dire: lo giuro su San Gennaro"
"Lo giuro su San Gennaro."
Mi salutò e si dileguò nel buio del cimitero.
Notte buia, fredda e nebbiosa. Davanti a me
l'immagine di Marina nella bara resisteva a
dileguarsi, o era il mio amore di nuovo rinfocolato
a desiderarla. Da un telefono pubblico, chiamai un
taxi e mi feci portare alla Stazione Centrale. Presi
il treno delle 22.00 e arrivai alla stazione Termini
di Roma, all'una di notte. A casa, presi sonno
subito, un sonno profondo, come la morte. Quella
notte la sognai: mi sorrise e mi salutò con la mano.
Al dito splendeva l'anello che le avevo donato.
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