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Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi poetici, in una
lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i
più elementari principi morali e di decenza...
poesie in lingua
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Intervista a Paolo Ragni:
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di Alessandro Rizzo
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Veronica andò alla finestra. Piano piano la
aprì e guardò in direzione del tramonto. Era una bellissima
serata di maggio, soffiava una leggera profumata brezza di
ponente.
Voleva scendere giù in giardino, ma c'era una ventina di scale,
e a quell'ora era fatica risalirle tutte. Decise così di restare
alla finestra: sotto, la strada presentava poche novità durante
la giornata, adesso, invece passavano le macchine per la
pizzeria lì vicino.
"Questo è il bello della mia città: non è città, e non è
campagna".
Questa frase se l'era detta mille volte, però le faceva sempre
piacere ripetersela. Del resto, aveva già sentito l'ultima
telefonata dei suoi figli, quindi poteva anche distendersi e
dire tutto quel che le girava per il capo.
"Sì, è proprio una bella giornata, direi bellissima".
Le venne da ripensare a quando, ragazza, andava a scuola -
passava proprio nei pressi, per un sentiero poi diventato viale
di circonvallazione.
"Eh, sì, quelli erano giorni..." ricordò quando alle superiori
correva in bicicletta, attenta a non strapparsi la gonna, si
arrampicava per le strade sconnesse che portavano in città. A
quei tempi s'era innamorata di un ragazzo di nome Giacomo, un
giovane alto, con gli occhiali. La cosa più difficile era
trovare il momento per stare sola con lui.
"Oh, se ricordo…" pronunciò ad alta voce "la sera ci trovavamo,
i sabati, a ridere e scherzare in un locale. C'era tutta la
classe. Venivano anche i ragazzi del quartiere".
Veronica fece una pausa:
"Diciotto anni. Non avevo niente. Ero povera, davvero. Come
ero!?"
Rifletté un po', intanto passò una macchina, aveva il tipico
puzzo dei vecchi diesel.
Puntò i gomiti sul davanzale e vi appoggiò la testa:
"Ero molto più felice di oggi. Dovevo fuggire con Giacomo,
andarmene via, via".
Restò un po' soprappensiero, poi emise una squillante risata.
"Sì, fuggire con Giacomo … che idea … anche lui era povero come
me, però le ragazze, anche più belle di me, gli ronzavano
intorno. Non è vero che era bello, aveva un'aria strana, la
lisca nel parlare, e solo magliette lacere indosso. Studiava
parecchio, passava i giorni chino sui libri, voleva diventare
maestro. Era un ragazzo d'oro".
Non se la sentì più di rimanere alla finestra, voleva sentire il
profumo dell'erba. Adagio andò alla porta, prese le chiavi
appese al muro, la torcia elettrica e, le ciabatte larghe ai
piedi deformi, si appoggiò alla balaustra e iniziò a scendere le
scale.
Alzò a fatica la testa, le rondini garrivano spudoratamente.
"Spudoratamente? Da dove mi è venuta questa parola in testa?"
Nuovamente rise di sé e della parola strana saltatale in testa;
pianissimo andò al tavolino, scostò una sedia di ferro, si
sedette. Di lì poteva osservare sia la strada, sia la città
distesa in basso, sia le stelle tra una mezz'ora.
"Davvero. Giacomo non me lo feci sfuggire. Una sera era una
festa di compleanno, io mi era vestita meglio che potevo. Certo,
avevo quei miei soliti quattro cenci, ma anche lui … non era di
meno!"
Sorrise a questa osservazione.
"Prima che riuscissi a parlargli, lui mi disse, rosso in viso
che quasi faceva paura: 'Sono tre settimane che non riesco a
dormire. Ti penso sempre. Vuoi…' ma non riuscì a terminare.
'Io…' però non riuscivo a riprendere il discorso, non mi
aspettavo questo da parte sua. Mi squadrò severamente in viso.
'Io…sì' fu l'unica cosa che riuscii a dire. Lui stette immobile,
poi si allargò in uno di quei sorrisi… aveva il naso storto, i
capelli troppo lunghi e gli occhi verdi, ridevano di felicità.
'Vieni. Andiamo a prendere qualcosa!' mi invitò.
Ad un juke-box qualcuno mise una canzone lenta, sembrava fatta
apposta per noi. Io non sapevo ballare, e neanche lui, eravamo
così felici che scoppiammo a ridere non appena la musica
terminò. Intorno a noi capirono quel che era successo tra noi.
Restammo tutti e due abbracciati a ballare anche a musica
finita, e così continuammo: Giacomo fischiettava una canzone ed
io l'accompagnavo al canto".
Adesso si stava facendo buio, il rosso del tramonto era
diventato quasi viola, solo in un angolo, giusto all'orizzonte,
si vedevano striature blu, porpora, rosa.
Veronica si lasciò andare ai suoi pensieri, senza però più
parlare sottovoce, le piaceva vedere il giardino immergersi
nella penombra. Poteva accendere i lampioni ma non ne aveva
voglia, poteva mettersi a sedere sul grande dondolo alle sue
spalle, ma preferiva restare seduta così, come da ragazza.
"A quei tempi non c'erano le sdraio…"
Un leggero odore di pomodoro, di sughi, di pizza le arrivò al
naso, era il ponente che glielo portava, quando soffiava lo
scirocco invece non c'era alcun buon odore di pasta, ma solo un
caldo afoso, quasi intollerabile.
"Passammo così molti sabati. Andavamo alla casa del popolo, o in
parrocchia, e ogni volta tutto era più bello della precedente.
Qualcuno portava sempre nuove canzoni, ma un sabato saltò la
luce. Invece di smettere, tutti quanti, continuammo a ballare,
Giacomo mi teneva stretta e alla penombra mi guardava che mi
scavava dentro. Erano sguardi brevissimi, fulminanti".
Adesso la campagna era immersa nel buio, i lampioni davano una
debole luce, solo i fari delle macchine illuminavano la strada.
I clienti non trovavano posto accanto alla pizzeria e lasciavano
la macchina sempre più vicino al suo cancello. Veronica
sorrideva. Un'auto le fu messa quasi davanti al cancello, ne
uscirono un ragazzo e una ragazza. Osservarono perplessi il
parcheggio un po' infelice, quando lei scorse la vecchia seduta
nel giardino.
"Signora" la chiamò "Le dà noia se lasciamo la macchina qui
davanti?"
Veronica rispose, prontamente:
"No, nessuna noia. A novant'anni non si esce più la sera!"
I due giovani sorrisero.
"Buona serata!" le augurò il ragazzo "Ma sta così al buio?"
"Sì, sennò vengono le zanzare" rispose, in realtà non veniva
nessuna zanzara a maggio, ma le piaceva starsene immersa nella
penombra. Le piaceva ancora di più essere vista da chi passava e
poter scambiare due chiacchiere con qualcuno.
I due giovani si allontanarono, si tenevano a braccetto,
parlavano a bassa voce.
"Giacomo" sussurrò Veronica "Perché ti sei schiantato sulla
Siena-Bettolle … perché avevi così tanta fretta di tornare…"
Il telefono da casa sua squillò.
"Oh Dio, chi sarà mai a quest'ora!"
Stavolta non aveva pensato a portarsi dietro il cordless, cosa
che faceva sempre, quindi rimase un po' impaurita e un o'
irritata dal contrattempo "Speriamo che non richiamino".
Il telefono tacque e poi ricominciò. Veronica stette inquieta ad
aspettare se squillava ancora, ebbene squillò davvero, a
distesa, e poi ancora, e poi ancora.
"Bisognerà che mi alzi, allora!"
Si alzò e si tastò nella tasca del golfino se aveva chiave e
torcia. Attraversò così mezzo giardino e iniziò a salire le
scale.
"Ma chi sarà mai che mi disturba, proprio adesso!
Il telefono squillava inesorabilmente, non aveva mai squillato
così tanto da quando c'era in casa.
"Io mi domanda" brontolava Veronica "chi sarà mai che mi
disturba ora".
Così diceva, sinceramente, ma era anche preoccupata, ogni cosa
nuova da qualche anno aveva cominciato a darle preoccupazione, e
una telefonata la sera alle dieci era una di queste.
"Ah!" esclamò, si ricordò improvvisamente che suo figlio Carlo
le aveva promesso di telefonarle appena arrivato alla fine di un
viaggio aereo.
"Ma come avevo fatto a scordarmene?"
Veronica trasalì. Era impossibile essersi dimenticata di questa
cosa. Gli aveva sempre raccomandato di darle una telefonata
quand'era a destinazione, e stasera lei se n'era scordata. Era
il più grande dei suoi quattro figli, quello che per primo gli
aveva dato dei nipoti, e per primo dei pronipoti. Eh, sì, perché
adesso aveva anche tre pronipoti.
"I miei pronipoti…" disse in un sorriso, ma il pensiero di
Giacomo le sovrastava ogni altro pensiero. "E' molto caro Carlo
ma…"
Le aumentava la tensione per non poter arrivare presto al
telefono, cercò di accelerare il passo per quanto poteva.
Le scale erano molte, specie a quell'ora, e un po' buie.
Veronica accese la torcia, la teneva forte davanti a sé, ma per
un qualche motivo la ciabatta le scivolò dal piede, il piede
inciampò contro lo scalino, Veronica lasciò cadere la torcia, ma
quell'attimo le fece perdere l'equilibrio, perché in un baleno
scivolò, rotolò giù per le scale e si rovesciò per terra, batté
la testa per terra, sull'erba.
Lì per lì sentì solo un gran dolore alla gamba, finché non capì
che cosa era successo. Era caduta, era riversa, forse le si era
rotto qualcosa. Dal viso non usciva sangue, la testa forse era
salva. Il telefono suonava ancora, chiamava e chiamava.
"Giacomo" sospirò Veronica "Mi ricordo ancora quando mi dettero
la notizia. Ma io ricordo ancora di più quando mi baciasti la
prima volta. Quando mi portasti all'osteria a bere un bicchiere
di vino. Mi ricordo ancora che mi ero messa la gonna a plaid".
Il telefono squillava squillava.
"Qualcuno arriverà prima o poi" pensò Veronica. Ho altri tre
figli, due sono in città, dieci nipoti, e poi i pronipoti…
qualcuno arriverà…."
A quel punto non le importò più niente se qualcuno fosse
arrivato o meno, c'era tanta gente che poteva accorrere in suo
aiuto, e del resto il dolore alla gamba era sopportabile.
"Ho sopportato molto di peggio in questi novant'anni" disse tra
sé
"Due parti, un'emorragia che rischiavo di morire, due operazioni
che manca poco andavo al Creatore, e poi …"
Non le sovveniva in mente niente, più niente di niente. Aveva
quasi sonno, le era passato ogni dolore davvero.
"Bene, così si sta proprio bene. Proprio. Non sono mai stata
bene così".
Il telefono aveva smesso di squillare.
"Adesso Carlo chiamerà qualcuno in città, da dove è finito in
capo al mondo. E qualcuno verrà a vedere cosa ha fatto questa
sciocca della sua mamma per andare a rispondere al telefono. Oh,
questi telefoni, quanta noia danno! di', Giacomo, non si stava
tanto meglio prima?"
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