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Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi poetici, in una
lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i
più elementari principi morali e di decenza...
poesie in lingua
napoletana,
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recensione di Marco Simonelli
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Intervista a Paolo Ragni:
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di Alessandro Rizzo
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Il suono delle campane scandiva il tempo
della nostra giornata - i contadini non avevano l'orologio al
polso negli anni 30 del 1900! Ci si svegliava all'alba quando le
campane suonavano per la prima S. Messa. A mezzogiorno ci
indicavano la pausa del pranzo. La sera suonava "l'or di notte".
Si ritornava a casa dopo una giornata di duro lavoro. La
famiglia si riuniva per la cena.
Il Venerdi Santo, quando si legavano le campane per la morte di
Gesù, la mia mamma mi portava con sé nell'orto perché era il
tempo di seminare il prezzemolo, il basilico, le carote, la
bietola e l'insalata, tutte piante molto importanti per il
nostro sostentamento. Io giocavo vicino a lei (avrò avuto cinque
- sei anni) oppure guardavo le formiche, rincorrevo le lucertole
che si scaldavano al sole, andavo sotto al ciliegio e mi
lasciavo cadere addosso tutte quelle bianche farfalle che si
posavano per terra come tiepidi fiocchi di neve.
Qualche volta giocavo con una fune (mi piaceva tanto saltare) e
se c'era anche mia sorella Ersilia giocavo con lei a piaccella
sull'aia o si faceva l'altalena con una corda che il babbo ci
aveva legato tra due alberi.
Quando si scioglievano le campane la mamma rastrellava le sue
aiuole perché i semi s'interrassero bene e, così nascosti, non
potevano diventare cibo per tutti quei passerotti che
svolazzavano allegri tra
i rami degli alberi e le siepi di rose e rosmarino.
La siepe di rose fioriva a maggio ed io m'incantavo a guardarla,
così bella con i suoi colori e così profumata. Maggio era il
mese mariano. La mia famiglia era molto religiosa e nel
salottino buono la mamma preparava un altarino con una statuetta
della Madonna. Davanti ci metteva un vaso che aveva sempre dei
fiori freschi. Io e mia sorella lo riempivamo di fiordalisi, di
margherite di campo e si teneva tutto in ordine, pronto per la
recita del S. Rosario.
La nostra era una famiglia numerosa e nel podere della Casa
Nuova, sulle colline della Val d'Elsa, convivevano tre famiglie
imparentate tra loro. Intorno alla tavola, nella grande cucina,
sedevano più di dodici persone. La mamma apparecchiava sempre
con la tovaglia bianca e con i piatti di ceramica che avevano
intorno un righino d'oro. E poi, in cucina, c'era il lume a
petrolio che pendeva dal soffitto, gli utensili di rame lucidato
nella piattaia, le mezzine sull'acquaio di pietra, con l'acqua
fresca della fonte ed il riverbero del fuoco sempre acceso per
riscaldarsi e per cuocere i cibi.
Accanto alla cucina c'era la dispensa, il salottino "buono", il
granaio, la cantina, le stalle. Al piano di sopra c'erano sette
camere da letto - la sola intimità permessa in una famiglia
patriarcale di allora! Meno di settanta anni fa e pare quasi la
preistoria!
La tavola si allungava di parecchio quando sull'aia arrivava la
macchina per battere il grano. Allora, aiutata da noi bambine e
dalle vicine degli altri poderi - sempre tra noi contadini ci si
dava una mano per i lavori più impegnativi - la mamma tirava
fuori la tovaglia buona con i ricami e gli asciugamani con le
trine, quel corredo da sposa che veniva mostrato con orgoglio.
In quell'occasione veniva preparato uno dei pranzi più
succulenti tra tutti quelli dei miei ricordi d'infanzia. L'odore
delle tagliatelle fatte in casa e condite col sugo del papero si
mischiava a quello del formaggio, del vino, del vinsanto e dei
dolci. Erano gli odori delle feste e dell'allegria.
Il vino stava nelle botti in cantina ed era sempre fresco e
frizzante. Il babbo e lo zio erano gli esperti intenditori:
quando si vendemmiava non lasciavano niente al caso. Ogni
operazione aveva i suoi tempi ed i suoi riti. Anche noi bambine
andavamo nel campo insieme agli altri. Il nostro compito era
quello di raccattare i chicchi che cadevano per terra da qualche
grappolo capriccioso, ma anche quello di riportare i panieri
vuoti ai vendemmiatori, dopo che erano stati svuotati nelle
bigonce.
I nostri due buoi - fedeli aiutanti del contadino quando arava
la terra, seminava il grano, o doveva fare ogni genere di
trasporto - attaccati al giogo tiravano il carro con le bigonce
fino alla cantina, pazienti ed obbedienti alla voce dell'uomo.
In cantina c'erano anche due orci di terracotta, smaltata
all'interno, grandi, panciuti, irraggiungibili ai miei occhi di
bambina. L'olio che contenevano era prezioso, troppo prezioso
perché noi potessimo toccarlo. Era un lavoro dei grandi, delle
massaie. La mamma ci infilava un bricco che usciva gocciolante
con un liquido denso ed odoroso come le olive alla spremitura.
Una volta andai col babbo al frantoio e mi sembrò di essere in
un mondo incantato. Come girava quella macina di pietra che
schiacciava con rumore quei frutti succosi che anch'io avevo
raccolto alla fine di Novembre! Allora, quando le olive erano
belle nere, si raccoglievano col cesto e si faceva tutto a mano
e, poiché in quella stagione faceva sempre freddo, le mani si
intirizzivano con grande facilità.
D'inverno la neve copriva i campi, l'orto, l'aia. Tutti gli
alberi intorno casa mi sembravano fantasmi dalle bianche
braccia. Noi si stava al caldo vicino al focolare e quando i
grandi si radunavano per la veglia, anche noi bambine si poteva
rimanere alzate.
Si giocava con le palline di terracotta (a cappe, col boro) o si
giocava con le bambole. La mia nonna me ne aveva fatta una di
cencio e le aveva fatto un occhio più piccino. Quando io glielo
dissi lei rispose che non importava perché ci potevo giocare lo
stesso. Dopo la veglia andavamo a letto con lo scaldino in mano
e la mamma ci precedeva tenendo la bugia con la candela accesa.
Che freddo quando ci si spogliava! E poi nel letto io stavo
tutta rannicchiata ed appoggiavo i piedi sullo scaldaletto per
riscaldarmi un po', ma quel calore non bastava mai.
La mamma mi metteva la camiciola fatta a mano con la lana di
pecora che sulla pelle mi pizzicava tremendamente. Anche i
nostri calzettoni ed i nostri golfini erano fatti in casa con la
stessa lana, ma non bastavano a riscaldarci. Quando fischiava la
tramontana ci venivano i geloni ai piedi e alle mani.
Un anno, per Natale, il mio babbo mi comprò una pelliccina
sintetica che si chiamava SILISKIT .
Era di color rosa e mi piaceva tanto. Con quella pelliccia, con
le scarpe di vernice ed il cappuccio in testa ero così bellina
che mi portarono in paese a farmi la fotografia.
Avevo cinque anni quando incominciai ad andare all'asilo da Suor
Camilla che ci diceva sempre in dialetto lombardo una buffissima
frase - Cara tè! -
Tutti i giorni facevo la strada a piedi con altre due bambine
più grandi di me. Nessuno ci accompagnava, ma questo era l'uso.
Forse non c'era pericolo.
Non posso dire se quella vita fosse bella o brutta.
Per me era semplicemente la mia vita e con tanto piacere la
ricordo adesso che sono vecchia ed ho quasi ottant'anni.
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