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Narrativa
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi narrativi inediti,
purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
Partita di calcio a Napoli
est di Giuseppe C. Budetta,
Il cupolone di Giuseppe
C. Budetta, Alle grotte di
Burgio di Antonio Carollo,
Ten bells (prima parte)
di Italo Magnelli, La
lastra di ghiaccio di Pietro Rainero,
La dama inglese di
Pietro Rainero
Poesia in italiano
Questa rubrica è aperta a chiunque voglia
inviare testi poetici inediti, purché rispettino
i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Erika Casini,
Antonio Caterina,
Rossana D'Angelo, Italo
Magnelli, Emidio
Montini
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Partita di calcio a Napoli est
Giuseppe C. Budetta
In estate, giocavamo a
pallone sulle aiuole davanti agli edifici INA-CASA
di Napoli est. La scuola era finita e liberi dai
compiti, potevamo giocare a pallone dalla mattina
alla sera con l'unica interruzione del pranzo a
mezzogiorno, quando le nostre madri ci chiamavano
dai balconi con ripetute grida:
"Peppino, sali subito sopra…"
"Angelino, sali…"
"Lelluccio, vieni subito qua…"
Qualcuno rispondeva con un vaffanculo alla propria
madre che non la finiva di strillare. Ogni madre che
ci chiamava dal balcone verso mezzogiorno, aveva una
cadenza particolare, perché nel palazzo, c'erano
famiglie del potentino, del salernitano, del
frusinate e dei bassi di Napoli est, questi ultimi
figli di sfollati a causa della Seconda guerra
mondiale.
A furia di giocare a pallone, l'erba del prato era
scomparsa, lasciando la polvere che si attaccava
alle nostre magliette inzuppate di sudore. Prima
della partita, contavamo coi passi quanti metri
dovesse essere larga ogni porta che per paletti
aveva una bassa pila di pietre tufacee, raccattate
da un edificio in costruzione. Allestite le porte,
nessuno voleva fare il portiere. Erano i più piccoli
ad essere piazzati in porta, oppure disposti a
cerchio, si faceva il tocco. Si dava il conteggio:
uno, due, tre…L'ultimo ad essere toccato restava per
il primo tempo, in porta. Nel secondo tempo,
subentrava un volontario che si era stancato troppo,
o restava lo stesso di prima, con la promessa che
nella prossima partita avrebbe giocato all'attacco.
Tutti volevano fare il centravanti di sfondamento,
od in alternativa l'ala destra come Garrincha del
Brasile. L'ala sinistra era meno ambita, fino a che
non cominciarono ad apparire in tivù grossi bomber
che da quella parte del campo facevano favolosi gol,
come Gigi Riva.
Negli anni Settanta, eravamo più grandicelli e
giocavamo in un vero campo sportivo, con le linee a
bordo campo, quelle per l'off side, gli angoli retti
per il corner e la chiazza rotonda per i rigori.
Agli estremi, c'erano vere porte con le reti. Con le
rispettive divise di squadra, giocavamo nel campo
sportivo dietro la vicina chiesa, partecipando ai
tornei rionali con la coppa placcata d'oro per la
squadra vincente. C'era un arbitro col fischietto e
la divisa tutta nera. C'erano due portieri titolari
con la divisa anch'essa nera ed il numero uno,
stampato sulla schiena. C'era la foto ricordo
dell'intera squadra, prima del fischietto d'inizio e
quelle scattate in azione, durante la partita. A
volte, assisteva uno sparuto pubblico, o un gruppo
di ammiratrici a bordo campo.
Invece negli anni Sessanta, eravamo alunni delle
medie. Giocavamo nelle aiuole davanti al palazzo e
nessuno voleva stare in porta. Difficile anche
affidare il ruolo dei terzini. Ognuno era convinto
di essere un centravanti di sfondamento, come in una
squadra di serie A. Pensavamo a Sivori, Pelé do
Nascimento, Mazzola (che spesso faceva la mezz'ala
destra), Eusebio, Luis Vinicio, o uno più alla
portata come Traspedini…Volevamo essere come loro:
dei veri centravanti di sfondamento. Chi aveva la
palla al piede non la passava e se l'azione sfumava,
i compagni di squadra gli gridavano ch'era troppo
individualista. Gli gridavano che avrebbero fatto
anche loro così, non passandogli più il pallone.
Angelino abitava al terzo piano, scala B era
rispettato da tutti perché aveva il pallone: era il
padrone del pallone. Se non lo vedevamo scendere in
cortile, andavamo a bussare a casa, al terzo piano.
Rispondeva al citofono una voce femminile: "Chi è?"
A gara, impetravamo: "Può scendere, per favore,
Angelino?"
Spesso, era la sorellina a troncare le querule
richieste con un secco no. Di conseguenza, gridavamo
da giù: "Angelinooo, scendi. Porta il pallone…"
Accadeva che si facesse la questua per il pallone
che correvamo ad acquistare alla merceria di don
Michele o' carpecato, nel vicino Rione Santa Rosa.
Erano palloni color arancione e costavano sulle 50
lire. Si faceva spesso la questua, cinque lire a
persona. Se si bucavano su una scaglia di vetro, si
potevano gonfiare con la siringa, occludendo la
bucatura col mastice: la colla filante per le gomme
delle bici. Tutti nel ruolo di centravanti,
accadevano le ammucchiate davanti ad una delle due
porte, come nel rugby. Il pallone rimbalzava qua e
là tra la selva delle scarpe scalcagnate.
All'improvviso, c'era chi alla fine riusciva a
sferrare contro la porta avversaria il tiro
risolutivo che il portiere non parava. Esplodeva il
grido trionfante: GOL! Nell'accanita baruffa, non si
capiva chi fosse stato l'autore del tiro. Qualcuno
chiedeva: "Chi ha segnato?"
L'autore del gol levava le mani al cielo, dicendo
con orgoglio: "Io… Io ho segnato."
Qualcuno contestava: "E' stato autogol…"
Un altro tagliava corto: "E' gol lo stesso."
Uno portava il conteggio e gridava: "Due a zero.
Palla a centro."
Qualcun altro cercava di contestare il gol, perché
in fuorigioco ed allora quello che aveva segnato
s'impadroniva del pallone, minacciando di sospendere
la partita. Qualcuno della squadra opposta gli
rubava il pallone da sotto il braccio e diceva che
era punizione dal limite, non gol. Alla fine ci si
metteva d'accordo: è gol e basta.
Per la squadra perdente, la colpa rimbalzava sul
portiere, rimasto impalato, senza tuffarsi nella
polvere. C'era solo Palladino che in porta, non del
nostro rione intercetta a volo il tiro, come Bugatti
del Napoli. Palladino era un ragazzo con la faccia
tutta mangiata dal vaiolo che di rado veniva a
giocare da noi e volontariamente si metteva in
porta. Tutti lo volevano in squadra, sia perché
sceglieva di starsene in porta, sia perché era bravo
a parare i tiri a volo e tutto questo faceva la
differenza. Nelle nostre partite giornaliere, la
palla carambolava senza tregua tra gruppi di
giocatori provetti. Grida e schiamazzi, richieste di
ricevere al momento la palla per il tiro risolutivo.
Qualcuno esasperato gridava stronzo al compagno,
perché non manteneva le marcature strette. L'altro
si riteneva un incompreso e rispondeva: "Stronzo sei
tu."
Ci si spintonava, mentre la squadra che stava
vincendo se la rideva e faceva sberleffi. I perdenti
si convincevano a mettere la palla al centro col
desiderio della riscossa, mentre l'altra squadra si
disponeva alla difesa, ma attenta al contrattacco.
Le ali e le mezz'ali ansimavano, piegate con le mani
sulle ginocchia, aspettando d'intercettare i
passaggi di palla. Si disponevano le marcature
strette che poco dopo nessuno rispettava. Ripreso il
gioco, cominciavano i passaggi veloci, fino a
portarsi davanti ad una delle due porte. Avveniva
una nuova baruffa di cosce e gambe impolverate. Il
pallone gironzolante frenetico tra le scarpette dei
molti centravanti di sfondamento. Dal CHAOS, usciva
il tiro in porta, imparabile, secondo il portiere.
Seguiva il grido trionfante:
"Gol. Tre a zero. Palla a centro."
I perdenti sbottavano: "Figli di zoccola."
Correvano le parolacce contro le schiappe per aver
fatto segnare agli avversari il terzo gol. Il povero
portiere non ne poteva più. Tre gol subiti erano
troppi. Mandava affanculo i suoi ed abbandonava il
polveroso campo.
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