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Narrativa
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi narrativi inediti,
purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
Partita di calcio a Napoli
est di Giuseppe C. Budetta,
Il cupolone di Giuseppe
C. Budetta, Alle grotte di
Burgio di Antonio Carollo,
Ten bells (prima parte)
di Italo Magnelli, La
lastra di ghiaccio di Pietro Rainero,
La dama inglese di
Pietro Rainero
Poesia in italiano
Questa rubrica è aperta a chiunque voglia
inviare testi poetici inediti, purché rispettino
i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Erika Casini,
Antonio Caterina,
Rossana D'Angelo, Italo
Magnelli, Emidio
Montini
Poesia in lingua
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Alle grotte di Burgio
Antonio Carollo
Escursione alle grotte di Burgio
con l'amico Giovanni. Lasciamo l'auto ai bordi della
strada di Passo Palermo, cioè a nord della nostra
meta. È un errore, presto ce ne renderemo conto. Da
qui la montagna è un breve rialzamento su una vasta
area ondulata. Sullo sfondo la distesa azzurra del
mare. C'è da superare la recinzione che chiude tutta
la zona: è un brutto segno, l'accesso a quel terreno
aspro d'erbe e di arbusti selvatici è stato sempre
libero. Montiamo su un guardrail e oplà, un salto
oltre il recinto. La vegetazione è bassa e rada,
disa (ampelodesimo), giummara (palma nana),
mentastri, sommacco, cipuddazzi (cipolla selvatica),
sterpaglia, asparago bianco e asparago nero
selvatici, filaccina, odorose piantine di ruta,
ginestra, cespugli di bora, finocchietti selvatici,
finucchiazzo (ferla), qualche pirazzolo (pero
selvatico) e qualche olivastro (olivo selvatico); si
cammina bene. Credevo che Giovanni conoscesse i
luoghi, ma da un suo accenno sulla direzione da
prendere capisco che ne sa meno di me.
Per orientarmi cerco di pescare nella memoria. Al
tempo dei bombardamenti su Trabia e Termini Imerese
papà ci fece sfollare in queste grotte. Partimmo da
Cozzo Corvo, papà, mamma, i miei fratelli Nino e
Giuseppina ed io, col mulo caricato fino
all'inverosimile, insieme ai Firriera, nostri
confinanti. Facemmo trazzere e sentieri in salita,
direzione sud, verso la montagna di Burgio che
vedevamo a distanza , con la sua massiccia mole
tondeggiante. No, questo ricordo non mi aiuta:
adesso il nostro tragitto è da sud verso nord,
dall'alto in basso, col mare di fronte. Altro
ricordo. Durante il soggiorno in grotta papà si fece
male alla mano sinistra con una canna secca. Ne
venne fuori una brutta suppurazione. Ci recammo ,
papà, mamma ed io, alle non lontane case di
Scialabba dove era sfollato il professor Ignazio
Gatto, medico specialista in pediatria. Dopo le
medicazioni ci mettemmo sulla via del ritorno. Ad un
tratto un rumore d'aereo. Papà si voltò di scatto
gridando: "A terra!" L'aereo passò a bassa quota;
una mitragliata falciò le erbacce ad una trentina di
metri da noi. Rimanemmo stesi una ventina di minuti:
l'aereo non tornò. Col cuore in gola riprendemmo il
cammino. Ecco, in base alla posizione di quelle case
rispetto alle grotte è possibile ricavare il
tragitto di quel viaggio. Dico a Giovanni che
bisogna scendere fino ad aggirare il fianco del
monte per rientrare sul versante che guarda il mare.
Ma il diavolo ci mette la coda. Il terreno è in
lieve discesa, man mano che si scende il monte sulla
nostra destra acquista quota. Ci fermiamo;
un'occhiata al percorso da fare: ci vorrà qualche
chilometro, mi vengono dei dubbi, evidentemente come
guida valgo poco. Giovanni si accorge della mia
incertezza. Dice: "Allora? …". E' un uomo sui
sessanta, di statura media, corporatura snella,
capelli ancora castani, abbronzato, accanito
nuotatore e abile pescatore di polpi; porta occhiali
da vista e un cappello di paglia a larghe tese,
jeans e maglietta bianca con una scritta sgargiante.
Fin dall'infanzia ha sentito parlare di queste
famose grotte di Burgio che si vedono abbastanza
bene dall'altro versante della valle, dalla
provinciale per Calamigna (Ventimiglia di Sicilia).
In teoria egli dovrebbe conoscere meglio di me
questa zona montana perché possiede dei terreni
nella vicina contrada Spina Santa; non è così, non
ha mai visto le grotte, vive a Torino fin da
giovane. Io ho il vantaggio di una remota conoscenza
diretta. Vedo laggiù le vecchie case Scialabba, una
volta una masseria solitaria, adesso in mezzo a un
guazzabuglio di altre costruzioni. Per raggiungere
la loro linea orizzontale rispetto alle grotte ce
n'è di strada. Non mi raccapezzo granché, le
distanze e la conformazione del suolo mi sembrano
diverse, ma non vedo altra via. Dico: "Credo che
dobbiamo continuare su questa direzione." Giovanni
non mi pare convinto. Guarda verso la sua sinistra;
dal posto dove siamo la montagna appare più alta, ma
c'è come una larga apertura tra le rocce che rende
agevole l'accesso, così penso. Giovanni dice:
"Andiamo per di qua, da lassù si vede meglio." Senza
attendere la mia risposta inizia a salire; pur non
approvando in mi accodo; penso che in effetti dalla
posizione indicata da Giovanni sarà più facile
decidere sull'itinerario da seguire. Giovanni va di
buona lena, lo seguo senza difficoltà; sono
abbastanza fisicamente allenato: tutti i giorni
ginnastica e movimento. Però non sono un
centometrista, devo andare col mio passo, come il
ciclista passista che nelle salite va col suo ritmo
senza permettersi accelerazioni, o, peggio, degli
scatti. Il mio compagno d'avventura guadagna
terreno, vedo spiccare tra le erbacce la sua blusa
bianca e il bianco del suo cappello da sole. Ho
l'impressione che sia già in cima; ma in montagna
mai fidarsi delle impressioni. Arrivo anch'io a
quello che appariva il culmine. Delusione, da lì non
riesco a capire nulla; davanti a me si estende un
vasto falsopiano infestato di aspra vegetazione,
sempre più aggressiva. Sensazione ben diversa da
quella provata più volte in cima al Faggeto di
Caprese Michelangelo, cioè sull'Alpe di Catenaia, a
milleduecento metri d'altezza. Lassù i secolari
faggi lasciavano il posto ad un'immensa spianata di
morbida erba verde. Facevo parte di un bel gruppo
formato, diciamolo, dai maggiorenti del Comune, con
mogli, fidanzati, fidanzate, figlioli, tutti
abitanti nella frazione capoluogo; eravamo esposti
un po' all'invidia dei concittadini. Sul lieve
pendio ci rotolavamo festosamente per decine di
metri in quel mare di erbe fresche, odorose, che il
venticello increspava come le messi a maggio. Un
albero qua e là a centinaia di metri l'uno
dall'altro. Le mie nostalgie hanno per oggetto
soprattutto persone e luoghi della giovinezza. Non
mi pare siano una specie di malessere, una sindrome,
come si dice. Fanno parte del mio patrimonio
culturale ed umano; senza contare le proficue nuove
frequentazioni e nuovi originali pezzi di vita.
Giovanni viaggia verso quello che sembra l'orlo
dell'altura. Comincio a pentirmi di aver lasciato
nelle sue mano il comando della spedizione.
Bisognava aggirare il monte, non montarci su.
L'avevo detto chiaro, e ripetuto più volte a me
stesso. L'esperienza mi dice che i monti non
gradiscono i dilettanti. Mi vengono in mente
l'Appennino tosco-emiliano, la foresta di Camaldoli,
le Alpi Apuane, luoghi non lontani dai posti dove ho
vissuto per lavoro; ogni anno questi monti impongono
il loro tributo di vittime. Per quanto riguarda il
luogo dove siamo non c'è da fare di questi paragoni,
lo so; questa è una montagna domestica, di casa
nostra; non c'è il pericolo di smarrire il senso
dell'orientamento; intorno a noi c'è il vasto
panorama del territorio di Trabia; ma il rischio può
sempre arrivare per altre vie: l'asprezza e
l'impraticabilità del suolo, la caduta in un dirupo,
per esempio. Siamo partiti senza uno zaino, senza
una borraccia d'acqua, senza un coltello o un
segaccio, con leggere scarpe da ginnastica, le
braccia nude, niente blu jeans per me, ma leggeri
pantaloni estivi. In tasca solo il cellulare e la
fotocamera.
Proseguo non certo spedito. I cespugli, un po' più
fitti e corposi frenano un po'; Giovanni è sempre
più avanti; di tanto in tanto si gira e mi grida:
"Antonio, vieni." Il sole comincia a picchiare,
siamo partiti alle sette e mezza, forse troppo
tardi; mi sto rendendo conto dell'errore commesso,
di valutazione dei tempi e delle difficoltà
ambientali. Ma cammino fiducioso. La mente mi va
alle grotte di tanti anni fa: una bassa bassa,
l'altra immensa, dal tetto altissimo, aperta su una
campagna selvatica che scendeva parecchio fino al
livello di un torrente. Ero un bambino, ma mi
ricordo tutto perfettamente. Papà aveva paura dei
bombardamenti. Ho nitida la scena del suo frenetico
avanti e indietro sotto la pergola d'uva della casa
di campagna: sul mare, al limite dell'orizzonte, si
stava svolgendo una battaglia navale a colpi di
cannoni. Fu quello il momento in cui decise di
portare la famiglia lontano, sui monti. Sparì per
una giornata, immagino in esplorazione; la sera
disse: "Domani partiamo per le grotte di Burgio." Ci
sistemammo nella grotta maggiore con qualche
materasso, coperte e gli attrezzi per cucinare. Dopo
qualche giorno arrivò zio Totò con la famiglia,
moglie e quattro figli. Poi la grotta fu invasa da
un centinaio di persone. La sera la mamma non poteva
prendere sonno. Sua sorella Marina, insieme alla
famiglia, era rimasta in paese. Il figlio Antonio,
un ragazzo di vent'anni, era a letto con una brutta
pleurite. Laggiù, verso il mare, in direzione di
Trabia, la mamma vedeva i bagliori, sentiva il
rumore sordo delle bombe esplose. "Bombardano Trabia."
diceva con un filo di voce. Teneva la corona in mano
e pregava intensamente. Anch'io non staccavo gli
occhi da quello spettacolo; mi stringevo a lei. Papà
cercava di incoraggiarla: "Nunù, ma perché piangi?
Bombardano a Termini, non a Trabia". "No no, è a
Trabia. Povera sorella mia, con quel figlio malato
..." Un giorno un conoscente ci informò che zia
Marina si era trasferita, con la famiglia, alla
Marinnuzza, in una casetta di proprietà a tre passi
dalla spiaggia. "Allora è viva, è viva!" esclamò la
mamma, in un impeto di felicità. Il paese, diceva
l'uomo, aveva subito dei bombardamenti, erano state
colpite alcune case, i morti erano tre o quattro, ma
i bombardieri americani si accanivano sul porto e la
stazione ferroviaria di Termini Imerese. La felicità
della mamma durò poco. Non passò una settimana, dopo
aver parlottare con un tizio, papà, pallido in viso,
le disse che la voleva vedere sua sorella Marina.
"Vestiti e andiamo". La mamma gli chiese
supplichevole: "Ma che è successo, dimmi che è
successo!" . "Non ti preoccupare, forse ha bisogno
di una mano d'aiuto." Invece era morto Antonio. La
mamma rimase alcuni giorni con la sorella. Tornò
vestita di nero; sembrava un'altra. Stette seduta su
un panchetto per ore, senza spiccicare una parola.
La sera il fuoco, per cucinare qualcosa, l'accese
papà.
Non vedo più Giovanni, forse ha oltrepassato il
falsopiano e si trova già in discesa. Cerco di
accelerare il passo, la vegetazione è fitta, non è
facile. Però, questo torinese d'adozione, penso,
poteva aspettarmi; ha imparato tra i piemontesi a
far per sé? L'aria va infuocandosi, il sole
siciliano non scherza. Indosso il cappello di
paglia, che ho acquistato nel negozietto della nave,
e gli occhiali da sole. Meno male, per la verità da
quando sono in Sicilia non li ho mai lasciati. In
paese il cappello ha colpito un vecchio amico,
Nardino, sordo come una campana ma con gli occhi
buoni, seduto davanti al circolo dei cacciatori nel
Corso, un uomo anziano, ma vispo, baffetti, capelli
grigiastri ancora abbastanza folti. Invidia: i miei
sono fini fini e radi, la mia sembra la testa di una
strega spelacchiata. E' un vecchio impiegato
(l'unico) dell'ufficio di collocamento, dal
carattere bonario, paterno; in paese hanno affetto
per lui; si è comportato bene nelle sue funzioni, ha
aiutato tanti giovani a trovare lavoro. Lo conosco
da quando eravamo giovincelli; lui era una specie di
sottocapo dei boy scout, sempre infaticabile,
disponibile; i compagni più piccoli, credo si
chiamino lupetti, le femminucce guide, lo trattavano
come lo zietto buono. Appena mi vide, quest'estate,
con una risatina a tutti i denti mi fece: "Eh,
Antonio, di nuovo qua, bello questo cappellino, dove
l'hai preso?" "Ciao, Nardino, nel negozio di mio
nonno." Un po' mi meravigliai della meraviglia
dell'amico. A Viareggio ne ho visti tanti di questi
cappelli; qui invece nessuno si copre il capo. Vedo
spesso ragazzi e adulti, anche rasati a zero,
tranquillamente con la zucca al sole, anche nelle
ore più calde; bambini di pochi mesi senza lo
straccio di un berrettino sulla testina; me li vedo
sfilare davanti all'auto in braccio alla mamma o a
papà; i genitori, con l'intera tribù, attraversano
la statale, nel tratto all'altezza della spiaggia
della Vetrana, senza degnarsi di buttare l'occhio
alle macchine che sopravvengono; non ci sono le
strisce bianche, che strisce e strisce, prima
veniamo noi, sembrano dire. Gli occhiali, anch'essi
sono nuovi di zecca. Li ho dovuti ricompare in
fretta. E' andata così. In certi giorni, nel tardo
pomeriggio io e i miei amici Mimmo, Giovanni e
l'altro Giovanni, ci sediamo ad un tavolino del bar
della Favara in piazza Lanza, a bere della birra e a
chiacchierare. Mimmo è anche mio cugino; l'ho visto
da neonato, è un colonnello commissario
dell'esercito, felicemente in pensione a sessant'anni;
è un tipo energico, atletico, non so quanti giri, di
corsa, fa per ore ed ore ogni mattina sulla pista
sterrata del disastrato campo sportivo del paese.
Sì, disastrato perché abbandonato dal Comune e
prontamente vandalizzato; un gioiellino di stadio,
fatto costruire con amore dal mio amico sindaco Totò
Piazza: misure regolamentari per le competizioni del
campionato di calcio allievi e dilettanti, scalinate
per il pubblico, locali per gli spogliatoi delle
squadre, sala di ginnastica, ufficio, sala di
riunione, servizi igienici doppi e quant'altro; anni
Ottanta, il Trabia navigava nei tornei dei
dilettanti. Piano piano venne il disimpegno e infine
l'abbandono. Per quali ragioni? Non riesco a
capirlo. Dovrò approfondire. Ma torniamo al
Colonnello. Mimmo, occhi vivi, baffetti di maschio
latino, calzoncini, eternamente in guerra con le
zanzare sulle gambe; non sopporta le facilonerie, il
pressappochismo, le disonestà; nel suo lavoro si è
distinto per il giusto rispetto delle prassi, dei
contratti e dei regolamenti in un campo certamente
impervio com'è quello degli approvvigionamenti
militari. Incarna quella che può considerarsi
un'anomalia per un militare: ha idee di
centrosinistra, duro avversario della destra becera,
populista, affaristica, obbiettivamente lontana da
una destra degna di questo nome. Aggiornatissimo
sull'attualità politica, non c'è tema o problema che
non sappia sceverare in tutti i suoi risvolti; è
deciso e convincente, si accalora e lascia poco
spazio all'interlocutore, se la questione è
scottante. Del primo Giovanni ho già detto
abbastanza, si è improvvisato come guida, ma dovrò
aspettare prima di poterne valutare le qualità. Per
intanto è scomparso dalla mia vista. L'altro
Giovanni è la perfetta figura del buon padre di
famiglia, fisico robusto, pacato nei suoi
ragionamenti, stravede per i due figli giovanotti,
uno laureato e uno diplomato; per loro farebbe
l'impossibile, è fiducioso in una loro prossima
sistemazione lavorativa. Il bar è posto sotto il
costone della montagna, che sovrasta la piazza, per
cui a quell'ora c'è ombra, gli occhiali non servono.
Quando ci siamo alzati per andar via li ho lasciati
sul tavolino. Non ho fatto più di duecento metri e
son tornato a riprenderli. Sul tavolino e nei
dintorni non c'erano più. Ho chiesto al barista, un
ragazzo alto e massiccio, non ne sapeva nulla. Sullo
spiazzo davanti al grande abbeveratoio un gruppo di
ragazzini giocava a palla, dei giovani, maschi e
femmine, stazionavano sui gradini del vasto palco in
muratura. Ultime occhiate qua e là, Amen. Questi
occhiali nuovi non mi soddisfano granché, sia per la
grandezza che per la forma delle lenti. Nel negozio
non c'era molto da scegliere. Comunque adesso
assolvono egregiamente il loro compito, il sole
dell'estate siciliana inizia a far valere i suoi
diritti.
Sono al limite del terreno in falsopiano. Da qui
inizia un esteso scoscendimento a balze fino alle
radici del monte. Il fondo, a pascolo montano, è
così distante laggiù da far apparire qualche raro
albero un puntino più scuro rispetto al resto della
stenta vegetazione. Il mare di fronte, una liscia
distesa azzurro-pallido che sembra alzarsi nella
lontananza fin quasi al livello da cui svaria il mio
sguardo alla ricerca di contrade, colline, piccole
valli, rilievi rocciosi, pianure coltive, fino alla
piatta striscia costiera, luoghi conosciuti e
familiari, che tornano all'occhio e alla mente nelle
diverse sfumature di verde come ridestati dalle
riserve d'immagini degli anni dell'infanzia e
dell'adolescenza. Più giù, a venti-trenta metri,
vedo Giovanni col suo cappello bianco. Gli dico: "Giovà,
si va bene o no?" "Abbastanza, stai attento a dove
metti i piedi, siamo parecchio in discesa." "Okay."
Cerco di avanzare con più energia, ma la vegetazione
si fa sempre più fitta e alta. Devo badare
all'equilibrio, sono costretto a tenermi con una
mano ai fasci di fili di disa, ma procedo
discretamente per un buon tratto. Poi le cose si
complicano, alla solita vegetazione si aggiungono i
rami spinosi dei rovi; bisogna spezzarli o passarci
sotto; non è facile, sono a mani nude; la resistenza
delle erbacce si fa più dura. Giovanni mi dice di
evitare il tratto appena seguito da lui. Faccio una
deviazione, dopo un po' non lo vedo più. Spero non
sia caduto. Continuo la mia lotta, i rovi ci sono
ancora, per fortuna non a cespuglioni, solo rami
serpeggianti nell'intrico di sterpi e ruvide erbe.
Ci sono pure grosse piante di finocchi selvatici;
nelle mani un sollievo, per la morbidezza; al
contrario, i rovi una tortura. Non guardo le braccia
nude, sterpi e rovi me le pungono e feriscono,
avverto dei bruciori. A tratti perdo l'equilibrio,
metto un piede in fallo, mi salvo aggrappandomi alle
erbe lunghe. Non vedo il terreno, ad ogni passo devo
saggiare a tentoni la solidità del suolo. Squilla il
cellulare, Giovanni mi chiede come va, gli rispondo
che per ora vado avanti, e che spero di farcela. In
verità comincio a rendermi conto delle difficoltà in
cui mi sono cacciato. Sudo a fontanelle, per così
dire; i raggi del sole sono micidiali, indosso il
cappello, ma la disidratazione può essere in
agguato: la paura è che mi vengano meno le energie,
il dispendio è grande. Sarà passata mezz'ora o
un'ora, Giovanni mi richiama, gli dico di stare
tranquillo, non sarà questa montagnola ad averla
vinta. Scaccio qualche pensiero molesto, no non
finirò per essere salvato dal soccorso pubblico. So
esattamente dove mi trovo; alzo gli occhi: in fondo
in fondo riesco a indovinare la collina del Cozzo
Corvo dov'è la mia casa. A quest'ora Carmela sarà
sotto la veranda, aperta sul vasto marciapiede, come
una terrazza sul terreno in pendio, con ringhiera di
ferro ("Deve essere grande come una piazza d'armi."
dissi per telefono a mio cugino Sarino, l'impresario
che stava ristrutturando la vecchia casa di mio
padre.), che dà sul sottostante giardino, denso di
ulivi, susini, melograni, peri, limoni, arance,
mandarini, banani, fichidindia e fiori; sarà seduta
al tavolo rotondo a tagliuzzare le foglie più tenere
del mazzetto di tenerumi di zucchina. Stamattina le
ho detto: "Oggi pasta, tenerumi e pomodoro. Sarò di
ritorno verso mezzogiorno e mezzo." Cosa starà
pensando del marito che se ne va in montagna, in
cerca di che cosa, poi?, in preda alla fisima di
rivedere un luogo dove visse da bambino? Lei è
allergica a queste bizzarrie, cura e ama la sua
casa; per lei esistono solo la casa, il marito, i
figli, la nipotina Aurora; che ogni sera sente al
telefono, chiedendole di venirci a trovare, insieme
alla sua mamma. Guardo l'ora sul cellulare: le dieci
e venti. Il sole sta avvicinandosi allo zenit: so
che significa. Vado avanti; rinuncio a proseguire in
via diretta verso il basso, come forse sta facendo
Giovanni, che da oltre un'ora non ho più visto; il
rischio che mi tiri giù una sciara non è da
sottovalutare. La rotta adesso è verso ovest, dove
s'affaccia un picco di roccia; ho la vaga
impressione che ai suoi piedi la marcia potrebbe
essere meno intricata. Intanto mi faccio largo a
forza con mani e braccia rigate di sangue. Mi si
para davanti un masso enorme; la sua superficie
irregolare emerge dalla vegetazione; cerco di
arrampicarmici con l'idea di un po' di riposo e
della possibilità di scrutare tutto intorno per
valutare meglio quel che mi aspetta. Non so com'è
successo, perdo l'equilibrio e mi ritrovo col sedere
e le spalle sulla densa vegetazione, le gambe in
alto, poggiate sul pietrone. Un attimo di
stordimento. Cerco di sollevarmi facendo leva sulle
gambe, ma sono troppo elevate rispetto al corpo;
provo un paio di volte, è impossibile, c'è troppo
sbilanciamento di peso, non sono sufficienti le
residue energie. Non ho più il cappello in testa,
guardo intorno, non lo vedo; adesso il volto e la
testa sono alla mercé del sole a picco. Giro le
gambe verso gli arbusti e le erbacce che circondano
la roccia; non mi fido, da qualche parte può
nascondersi il vuoto, un dirupo. A tentoni riesco a
trovare un punto fermo, mi rialzo. Devo montare
sulla roccia. Altro tentativo, questa volta a stento
ce la faccio; recupero il cappello. Ho rasentato il
limite delle mie forze. La sensazione è stata netta,
alla bocca dello stomaco. Il calore è terribile,
cosa darei per un sorso d'acqua? Trovo la forza di
rimettermi in piedi. Il superbo panorama, ben
conosciuto, familiare, soprattutto il mare, mi
rasserena. Il silenzio è assoluto, non un uccello,
nessun animale; non penso al possibile incontro con
serpenti o vipere, incoscientemente, perché la
montagna di Burgio non è certo l'uliveto dietro casa
mia. Nessuna traccia di Giovanni, grido il suo nome
un paio di volte: silenzio. Non mi viene in mente di
usare il cellulare. Scruto le condizioni del suolo
al di sopra del masso. Mi pare di rivedere più in
alto la vegetazione che ho attraversato in cima. Mi
rimetto in marcia, questa volta salendo. Non mi
sbaglio, una cinquantina di metri; il cammino è
sempre difficile ma più agevole. Punto ad ovest,
verso lo spuntone di roccia, che, chissà perché, mi
dà sicurezza. Mi bruciano le braccia, avrò un taglio
anche su una gamba, nonostante i calzoni. Vado
avanti per qualche centinaio di metri. Sono vicino
alla roccia, all'improvviso il colpo di fortuna:
sotto i miei piedi un sentiero di capre che va verso
il basso in una zona in cui la pendenza è più
blanda. Sono stremato, l'aria è incandescente, ho
paura di barcollare sotto un sole senza pietà. Mi
avvio camminando lentamente. A metà costa, in fondo,
su un prato selvatico, vedo luccicare i dorsi di un
branco di cavalli bianchi.
Era bianco anche il mulo di papà. Povera bestia, era
già anziana; fu un aiuto prezioso per il trasloco
alle grotte e per i diversi vai e vieni che papà
faceva tra le grotte e la proprietà dove sorgeva la
casa di campagna. Il mulo tornava sempre carico. In
quegli anni di miseria nera papà non ci fece mancare
mai il necessario; oltre a frutta, verdura e pane,
avevamo pasta, legumi, uova, qualche pollo,
formaggio (quest'ultimo ce lo forniva Firriera,
insieme alla ricotta e al siero, l'allevatore
confinante con la nostra). Non c'era carne di manzo
o di maiale o di altro tipo. I bambini, con cui
giocavo davanti alla grotta, erano laceri e a piedi
nudi; se durante il gioco mangiucchiavo pane e
formaggio, che la mamma m'aveva messo in mano, non
mi levavano gli occhi di dosso. Ciccio, così si
chiamava,, quando era a riposo, pascolava tranquillo
tra le erbe selvatiche lungo il declivio che portava
al vallone. Gli davamo allora, noi bambini, un po'
di noia, girandogli intorno e gridandogli: "Ciccio,
Ciccio," il suo nome. Non ci avvicinavamo più di
tanto, non ci azzardavamo a toccarlo perché era
piuttosto diffidente; con papà invece sembrava un
agnellino, lui non lo picchiava mai, ma lo caricava
senza pietà; lo trattava con rudezza ma con
rispetto. Mi avvicino al piano. Dimentico di
Giovanni. Lui se n'è andato via, forse costretto
dalla forte pendenza del terreno; comunque mi aveva
lasciato indietro, sparito. Adesso però mi preoccupo
per lui. Certamente ha preso una via più diretta
verso il basso, non sarà scivolato e si sarà fatto
male? All'improvviso lo vedo giù, piccolo piccolo, a
grande distanza, all'ombra di un albero. E' in
piedi, col suo cappello di paglia, che da qui è un
puntino bianco. Faccio una deviazione, il terreno
pur cespuglioso me lo permette. Saremo vicini alle
grotte? Guardo il costone della montagna che più in
là, uno o due chilometri, diventa una parete a
picco, in parte nascosta da un folto di alberi. Mi
sembra d'essere sulla strada giusta: le due grotte
saranno alla base di quella parete. Mi ricordo che
papà, quando arrivammo alle grotte guardò lo
spessore di quel tetto naturale. "Qui le bombe non
ci potranno far nulla," disse soddisfatto. Lui
pensava solo ai bombardamenti, ma la guerra non è
solo bombe sganciate dagli aerei; alla fine di quel
soggiorno da trogloditi se ne rese ben conto.
Quelle grotte mi sembravano una scoperta favolosa di
papà, ma chissà quante generazioni di agricoltori e
contadini le avevano viste. Come detto, non eravamo
soli; con noi c'erano l'allevatore Firriera, con la
famiglia, un sei-sette persone. Io pensavo agli
animali abbandonati nella stalla. Dissi alla mamma:
"Chi darà da mangiare alle mucche e ai vitelli?
Moriranno …" "No, Firriera tornerà ogni giorno a
governarli." Conoscevo bene quegli animali, erano
quattro o cinque mamme e tanti vitellini; l'odore
intenso dello strame, le mangiatoie piene di erba
fresca; le mucche sempre a masticare e a ruminare.
Se m'affacciavo sulla porta si giravano a guardarmi.
Volevo accarezzare i vitellini, ma mi sfuggivano; le
loro mamme mi fulminavano con gli occhi e agitavano
la coda; qualcuno riuscivo ad abbracciarlo, il
contatto con quel corpo così morbido e vivo mi
mandava in estasi. Poi Firriera, un uomo alto e
magro, le guance scavate, i capelli ispidi, severo,
mi restituiva il tegame pieno di siero. A casa ne
mangiavo una grossa tazza. A volte veniva anche la
mamma; faceva grandi chiacchierate con la moglie di
Firriera, una donna pingue, accogliente, sorridente;
allora mi ci scappava pure un'arrampicata
sull'immenso gelso davanti alla stalla e una bella
scorpacciata dei suoi frutti. La mamma mi sgridava,
se le riusciva a prendermi, mi puliva la faccia e le
mani, impiastricciate di nero, sotto un rubinetto.
Adesso eravamo in un altro mondo. Le grotte erano
due; una, bassa bassa e larga, quasi non ci si stava
in piedi, la presero i Firriera; noi ci sistemammo
nell'l'altra, immensa, la volta altissima, davanti
tutta aperta, nell'angolo sinistro, in una piccola
grotta nella grotta. Papà vi scaricò i materassi e
le poche masserizie (una bella fatica per Ciccio).
Il pavimento era un po' più alto rispetto a quello
del resto della grotta. Eravamo i primi arrivati e
prendemmo perciò il più bel posto. La mamma, come
prima cosa pensò a sistemare gli oggetti di cucina,
pentole, tegami, piatti, posate, tazze e a costruire
il focolare. Ordinò a noi, fratelli e sorella, di
cercare tre pietre, piuttosto grosse, dalla forma
allungata. Ci mettemmo all'opera. Io, più svelto,
cominciai a setacciare il terreno dentro e fuori la
grotta; Nino, il fratello maggiore, studente
sussiegoso, se la prese comoda; Giuseppina,
signorina sedicenne, chissà dove stava con la testa:
sì, vabbé, ora vediamo. Sotto un pinastro adocchiai
una pietra, più o meno con le caratteristiche
richieste. "Mamà, Mamà, ne ho trovata una!" Gliela
portai. "Ce ne vogliono altre due," disse senza
scomporsi. Nino si era avviato lungo la parete del
monte, Giuseppina non sapeva dove andare a cercare.
Insomma io e Nino rimediammo le tre pietre. La mamma
le accostò formando un rettangolo aperto da un lato
e vi pose sopra, come prova, una pignatta: tutto
bene; legna e ramaglia ce n'erano in abbondanza.
Mi avvicino ai cavalli: sono quattro o cinque
giumente e due puledri, liberi come l'aria; non si
allontanano molto da un grosso recipiente di
plastica pieno d'acqua, posto sotto un albero in
cima ad un cocuzzolo di terreno. Più in basso un
casolare diroccato che con la calura meridiana, in
mezzo a quella vegetazione fulminata dai raggi del
sole, si distingue poco. Ora vedo abbastanza bene
Giovanni; anch'egli mi scorge e grida: "Antonio,
sono qua!" La distanza c'è, la voce arriva debole.
"Giovanni, sono subito da te!", grido a mia volta.
Chissà da quanto tempo aspetta. Avrà trovato una
specie di direttissima? Coraggio o incoscienza? Io
invece ho dovuto fare un lungo giro. Sono contento
però, riprenderemo insieme la marcia. Sento che le
grotte sono vicine. Penso a zio Totò. Arrivò con la
famiglia dopo alcuni giorni. Papà era contento: lo
zio, suo fratello minore, non voleva spostarsi dal
paese; i bombardamenti di Palermo e di Termini
Imerese non lo smuovevano; sottovalutava il
pericolo. Papà gli diceva: "Non vedi che gli aerei
sono così fitti da oscurare il cielo? Bombardano
dappertutto. Porta via la famiglia dal paese". "Ma
sì, Trabia è un piccolo centro agricolo, vuoi che vi
sprechino delle bombe", rispondeva. Le insistenze di
papà finalmente fecero breccia: portò la famiglia in
una sua casa colonica dei Piani e poi alle grotte di
Burgio. Lo vedemmo arrivare col suo mulo baio,
carico di masserizie, la famiglia dietro, moglie,
suocera, le mie tre cuginette e l'ultimo nato, di un
anno. Eravamo felici. Si sistemarono accanto a noi.
La grotta intanto si andava riempiendo. I
bombardamenti continuavano. Dopo poco tempo sapemmo
che le bombe avevano centrato una casa nei pressi
della stazione, quella del cavaliere Sanfilippo e
quella. appunto, dello zio. Furono uccisi una coppia
di sposi e la giovane figlia del cavaliere. Ricordo
la faccia terrea di mio zio e, insieme, l'enorme
sospiro di sollievo: lui e la sua famiglia erano
scampati ad una morte certa. Mamma, papà, lo zio, la
zia, tutti, ci abbracciammo fortemente. "Meno
male!", papà aveva le lacrime agli occhi. Mi vengono
i brividi anche adesso. Raggiungo Giovanni. Mi dice:
"Sono scivolato; ho uno stiramento alla spalla."
"Sei fortunato, ti poteva andare peggio." Mi siedo a
terra all'ombra del pinastro, tutto un bagno di
sudore. A pochi metri c'è una piccola vasca con un
filo d'acqua che esce da un tubo. "Vai a bagnarti e
a bere", dice Giovanni. "Un momento, fammi riposare,
così mi asciugo un po' di sudore." Che follia andare
a finire dentro la selvaggia vegetazione montana
senza seguire una traccia, un sentiero. Dal punto
dove siamo mi rendo conto dei luoghi. Avevo ragione,
dovevamo scendere lungo il lato ovest del monte,
evitando di salirci sopra. Ma non sarebbe stato
facile lo stesso. Venendo giù ho visto delle robuste
recinzioni. Insomma tutto sbagliato, ci siamo
avventurati senza chiedere informazioni. I tratturi
di una volta sono scomparsi. I proprietari di questi
terreni selvatici a quanto pare marcano i propri
possessi con dei recinti, chissà, in vista di una
loro destinazione ad aree edificabili? Non trovo
altre ragioni. L'onda della cupidigia umana sta
arrivando alle pendici della montagna. Un quarto
d'ora, o anche meno, poi mi fiondo nella vasca.
L'acqua fresca in faccia e sul capo mi fa rinascere.
Non ricordo una sensazione di intenso ristoro come
questa. Il filo d'acqua che scorre dal tubo è
rientrato rispetto al bordo della vasca, bisogna
stendere un braccio, prendere l'acqua potabile nel
palmo della mano. Alla bocca ogni volta arriva molto
meno di un sorso. Ce ne vuole di questa ginnastica
per soddisfare l'arsura! Giovanni mi dice di fare
con calma, di trattenere nella mano più acqua
possibile con minimi movimenti. E' una parola, il
liquido scivola via, la bocca rimane quasi asciutta.
Ma insisto, meglio di niente, il mio corpo è una
fornace. Un quarto d'ora?, mezz'ora?, a succhiare
quella linfa di vita? Infine ritorno all'ombra del
pinastro. Bisogna decidere se andare avanti o alzare
bandiera bianca.
Il sole è alto ma le grotte ci attendono, non
possiamo bruciare questa giornata così. Ci alziamo e
in marcia, seguendo un sentiero ben visibile.
Restammo circa un mese nella grotta; quella grande
si riempì di gente; un centinaio di persone dormiva
in giacigli di fortuna; durante il giorno c'era
tanta animazione, un chiacchiericcio continuo. Ad un
certo punto sul bordo della grotta, su dei massi di
pietra, alcuni coltivatori cominciarono a porre in
vendita ortaggi, pesche, susine, pere, mandorle
verdi, fave, ceci. Non c'erano molti soldi in giro,
tanti sfollati, uomini, donne, bambini, guardavano
quelle ceste di ben di Dio con l'acquolina in bocca,
ma non compravano: niente soldi. I venditori
comunque riuscivano ad esitare quella merce
praticando anche, per certi generi, il baratto. Noi
eravamo riforniti di tutto da papà e dallo zio. Il
latte, la ricotta e il formaggio non ci mancavano,
ce li portava Firrera. Non so come facevano i nostri
genitori a procurarsi pane, pasta e altri generi non
prodotti in proprio. Molti adulti e bambini avevano
la fame impressa sul viso. Papà era generoso,
offriva loro delle forme di pane, frutta e verdura.
Bambini e ragazzini scorrazzavano a piedi nudi, a
volte qualcuno si fermava di botto con una smorfia,
si chinava per estrarsi una spina dal piede. La
mamma, abbattuta per la scomparsa del nipote
Antonio, non dava molta confidenza. Si occupava dei
figli, del marito, delle faccende domestiche
(cucinare, lavare i panni, tenere pulito il nostro
angolo di grotta, rammendare); nei lunghi pomeriggi
sedeva a cucire con la cognata Mariannina e la madre
di lei, Caterina. Parlavano delle ristrettezze e
delle scomodità in cui erano costrette a vivere,
della scarsezza dell'acqua che non bastava mai per
gli usi normali ed anche per via dei figlioletti che
si scatenavano nei giochi in mezzo alla terra,
s'insudiciavano gambe, braccia, viso, pantaloncini,
camicette, vestine e tornavano conciati come piccoli
mostri; ma anche i rispettivi mariti non scherzavano
con gli andirivieni dalle loro proprietà, quanto a
panni sporchi e sudati. La mamma pensava al suo
povero nipote Antonio, da poco accompagnato al
cimitero; le lacrime le scendevano copiose, la voce
incrinata di pianto; quanto era buono e affettuoso,
per me era come un figlio, diceva, veniva spesso a
casa, mi portava le primizie di campagna, sempre a
disposizione per delle commissioni, perché mio
figlio Nino stava sempre a studiare sui suoi libri
di liceo; un angelo del paradiso. Dio ha voluto
così, si faceva il segno della croce, non è giusto,
però sia fatta la volontà di Dio. Zia Mariannina
piangeva per la sua casa centrata da una bomba. Ma
ci pensiamo, diceva, a quest'ora saremmo tutti morti
se Totò non si fosse convinto a portarci nella casa
di campagna; morti come quella povera figlia del
cavaliere Sanfilippo, uccisa nel giardino della casa
di fronte a noi; e i mobili, il corredo da sposa, i
vestiti, tutto distrutto, siamo rimasti con questi
panni addosso e poco più; Totò dice che qualcosa ha
salvato, ma io non ci credo, dove scoppiano le bombe
non rimane più nulla. La mamma cercava di
confortarla, devi ringraziare Dio per
l'illuminazione data a tuo marito, le diceva, devi
essere felice per la grazia di essere tutti vivi;
conta solo la vita, il resto va e viene. Nonostante
le disgrazie e i pericoli per me quella era
un'avventura straordinaria. Con le mie cuginette,
Pina di sette anni, Terina di cinque e Giannina di
tre e con alcuni ragazzini, giocavo a rincorrerci, a
nascondino, sempre in vista della mamma, sul terreno
smosso dagli animali (capre e pecore al pascolo o
conigli selvatici e lepri), ricco di erbacce,
arbusti e da qualche stento alberello che resisteva
al caldo estivo. Mia sorella Giuseppina faceva
comunella con alcune ragazze, chiacchieravano o
improvvisavano dei giochi femminili che a me non
interessavano per niente. Passava anche delle ore al
telaio, a ricamarsi il corredo da sposa. Era l'unica
ragazza della grotta occupata in questa attività, a
dispetto delle ansie per lo sfollamento, per gli
aerei che a volte oscuravano il cielo, tanto erano
numerosi, per gli scoppi dei bombardamenti che
percepivamo distintamente, specie la sera. La mamma
insistette molto con papà nel chiedergli di portarle
quel telaio, le stoffe e tutto l'occorrente per il
ricamo che si trovavano nella casa di villeggiatura.
Credo che volesse tenere occupata la figlia, farla
stare tranquilla al lavoro, al suo fianco.
Giuseppina spesso contraddiceva la mamma, ne
nascevano piccoli battibecchi, ma l'autorità materna
non si discuteva. Nino, diciassettenne, piuttosto
posato, si dedicava con altri ragazzi
all'esplorazione dei dintorni e alla caccia di certi
uccellini; sostituiva a volte papà nel compito
rifornirci d'acqua: col mulo a barda andava a
riempire due grossi recipienti di terracotta alla
sorgente di Sant'Onofrio. S'era portato dietro dei
libri di scuola e dedicava qualche ora allo studio:
era al secondo anno del vecchio liceo classico. Papà
e zio Totò passavano giornate intere nella grotta e
nei dintorni, salvi i giorni in cui tornavano con i
rispettivi muli, nelle loro proprietà, o chissà in
quali altri posti, per procurarsi delle vettovaglie.
I capi famiglia qualche volta si riunivano in
gruppo, seduti sull'irregolare lastricato naturale
di pietra viva, e attaccavano con discorsi
interminabili. Gli argomenti erano sempre i soliti:
le difficoltà dell'agricoltura i cui prodotti non
trovavano esito nei mercati ortofrutticoli a causa
degli sfollamenti e della miseria che imperversava;
l'olio rimaneva invenduto nelle giare; il grano
doveva conferirsi all'ammasso per quattro soldi.
Ciascuno dei proprietari raccontava le proprie
vicissitudini. Qualche bracciante ascoltava,
annuiva, ma rimaneva zitto, confuso dal fiume in
piena dei ragionamenti degli agricoltori. Poi si
passava alla guerra che non si doveva fare,
Mussolini doveva stare fermo, l'Italia non era
preparata; guardate l'America di quanti aerei
dispone, quanti ne passano sulle nostre teste! Gli
aerei nostri dove sono? Avevamo le colonie, tante
ricchezze da sfruttare, tanto lavoro; sta andando
tutto in fumo; gli americani non scherzano, hanno i
dollari, e tantissimi carri armati, navi,
sommergibili, aerei; noi abbiamo i cannoni di legno
(qualcuno aveva sparso questa voce); comunque i
mezzi da guerra erano contati. Non tutti
concordavano, così il discorso cadeva sui
tradimenti, sulla guerra che andava male perché
l'esercito era pieno di traditori, Mussolini aveva
fatto bene ma i generali lo tradivano. Infine si
parlava dei propri congiunti sotto le armi: quasi
tutti gli anziani avevano uno o più figli in guerra,
da tempo non ne avevano notizie, il discorso si
faceva accorato e finiva in tanti rivoli di
lamentele e di angosce. La domenica si giocava a
carte; si formavano dei gruppetti di quattro
giocatori. C'era chi si applicava al gioco con
serietà e stava zitto, ma i commenti, le
contestazioni tra compagni, gli sfottimenti e le
relative reazioni non mancavano nelle varie fasi del
gioco, sotto l'occhio divertito di quanti
assistevano assiepati intorno . Papà e zio Totò
erano di quelli calmi e riflessivi, tanto che spesso
ne uscivano vincitori e dall'alto della loro
conquistata autorevolezza zittivano e strapazzavano
scherzosamente i perdenti di turno. Accadeva pure
che ad un tratto, nel preciso momento in cui veniva
percepito il sordo rombo dei bombardieri in marcia
verso i loro obbiettivi, scendeva su tutti un cupo
silenzio, gli occhi rivolti al cielo, attraverso
l'ampia apertura anteriore della grotta: enormi
formazioni di aerei, non finivano mai di sfilare,
procedevano verso est, pronti a scaricare i loro
ordigni di morte su porti, ferrovie, infrastrutture,
su postazioni militari e, spesso, su abitazioni
civili. Dopo quel rabbrividente passaggio rimanevamo
tutti come degli ebeti, il silenzio persisteva,
molti pensavano ai loro congiunti in guerra, le
donne pregavano e piangevano mentre un groppo
d'angoscia prendeva tutti. Poi una voce rompeva il
silenzio e si tornava alla normalità di una
esistenza che non aveva nulla di normale.
Giovanni, come ha fatto prima, cammina davanti a me.
Non me ne preoccupo, il sentiero mi dà sicurezza. La
vegetazione è rada, qua e là sorgono delle piante di
finocchiazzo (ferla); sono quasi secche, senza
foglie. "Vedi?, sotto queste piante appena piove,
dopo tre o quattro giorni, nascono i funghi ferla,
tra i più prelibati.", dice Giovanni. "E tu, vecchio
cittadino torinese, come lo sai?", gli chiedo.
"Dimentichi che sono un trabiese e che ho vissuto a
lungo in queste contrade." Presto ci accorgiamo che
il sentiero non sale di quota, però ci avvicina al
prospetto di quella parete di roccia sotto cui
dovrebbero profilarsi le grotte. Comunque andiamo
avanti; ai lati della traccia che seguiamo, il
terreno, pietroso e scosceso, è coperto da fitte
piante di sommacco. Ad una certa distanza, più in
alto, si vede un grosso olivastro; ad occhio
dovrebbe essere sulla direttrice delle grotte. Ma
siamo bassi, bisogna salire, il terreno ripido,
senza appigli, con le pietre che scivolano sotto i
piedi, rende instabile l'equilibrio. Occorre un
bastone. Ne facciamo due dal tronco secco di due
piante di finocchiazzo; non c'è da fidarsi troppo,
data la loro leggerezza, ma è meglio di niente,
basta non appoggiarsi con tutto il corpo, non
reggerebbero. Passo dopo passo, con notevole sforzo
e qualche piccolo sbandamento subito annullato col
puntello del provvidenziale bastone, lentamente
guadagniamo quota. Incontriamo altri due o tre
sentieri, sempre diretti in orizzontale, ci aiutano
ad avvicinarci all'olivastro che adesso vediamo
nella sua imponenza di enorme cespuglione. Ogni
volta ne percorriamo un tratto, poi ci arrampichiamo
su quella irta pendice. Il sudore scorre a fiumi; il
sole è impietoso. Ogni tanto una breve sosta. Il
Monte Malu Purtusu è di fronte a noi, sull'altro
versante della valle. Il suo profilo allungato,
tondeggiante, dà un senso di serena bellezza. Sul
suo fianco di tanto in tanto vediamo un luccichio e
un minuscolo oggetto che attraversa il folto degli
oliveti: è un auto che percorre la provinciale per
Calamigna (Ventimiglia di Sicilia). Guardiamo
Vadduni Funnutu, il torrente che scorre profondo,
incuneato fra strette gole; appare in fondo in
fondo: ne abbiamo fatta di strada in salita. A nord
le colline Morello, sfregiate da tante costruzioni,
orlano il piano che corre lungo la riva del mare. La
lontananza e la foschia velano la congerie di case
costruite sugli antichi giardini che davano lavoro e
benessere ai trabiesi. Proseguiamo su un terreno più
libero da vegetazione, sempre più ripido e
insidioso. Sarà passata un'ora in quest'ultima
arrampicata. Il sole è ormai quasi a picco. La
fatica si fa sentire, Siamo vicinissimi
all'olivastro; Giovanni si ferma su un nuovo
sentiero, il terzo o il quarto che attraversa il
nostro cammino; io ancora stento ad arrivarci,
finalmente ci sono. Giovanni mi dice: "Alza gli
occhi." Davanti a me, d'improvviso, eccola: la
grande grotta di Burgio. Un tuffo nella mia
infanzia. Per qualche attimo rimango immobile, senza
parole. La riconosco benissimo. D'impeto copro
l'ultima cinquantina di metri. Supero una specie di
cordone fatto di massi lungo il filo della sua
entrata e sono sotto l'alta volta. Mi colpisce il
nitore dei lastroni di pietra viva, niente erbacce o
escrementi di animali o infestazioni di sorta,
sembra ripulita per mettere in mostra la selvaggia
bellezza di una dimora naturale ricavata nel vivo
della roccia. Sulla sinistra la grotta nella grotta,
la nostra abitazione per un mese; mi pare un po' più
piccola e il suo pavimento più basso di quel che
pensavo. Ma non c'è dubbio: è il rifugio offertoci
dalla natura nei giorni dei fitti bombardamenti. Mi
siedo sullo scalino che delimita la cavità. E' il
posto dove stava a sedere in pena la mamma nelle
serate e nelle notti passate a fissare i sinistri
bagliori che s'accendevano in direzione di Trabia.
Giovanni mi dice: "Allora? Che pensi?" Lì per lì non
so che rispondere, il cuore e la mente sono in
subbuglio. Dopo un visibilio d'anni, tornare in un
luogo speciale e remoto in cui si è vissuto uno
speciale tratto d'infanzia non è un fatto consueto.
Il turbamento c'è, porta all'inizio di un tempo, di
una vita, in lontananza, in un mondo come fosse solo
sognato, seppure vissuto, che torna, interrompe
l'ordinata scansione dei giorni; un mondo che
risorge e vive, con persone, luoghi, pensieri, nella
piena di un sommovimento che offusca i confini tra
reale ed immaginario. "Che dirti, Giovanni, qui sono
stato bambino, per certi versi la vita da sfollati
in questa grotta fu per me un'avventura favolosa, ma
la permanenza in questo luogo selvatico non fu solo
corse, giochi, felicità, per la prima volta provai
dolore nel vedere il volto della mamma segnato
dall'ansia e dalle lacrime; ed anche paura, per la
tragedia sfiorata che all'improvviso pose fine alla
nostra vita in grotta."
Mi alzo, il fiatone è cessato. Guardo intorno, cerco
un indizio, una traccia della vita trascorsa in
questo posto: niente, non un oggetto estraneo alla
roccia, non pietre disposte in un certo modo per
l'uso quotidiano, ad esempio, a forma di focolare;
tutto sparito, il soggiorno e gli eventi di quei
lontani giorni, nessun riscontro materiale, come se
non fossero mai avvenuti. Rimane solo la memoria di
chi li ha vissuti, ma gli adulti di allora saranno
quasi tutti scomparsi; anche molti dei bambini che
scorrazzavano con me. Quanto ancora correranno e
resisteranno nelle menti di uomini e donne le
immagini di quel frammento di vita così divergente
dalla quotidianità di un tranquillo paese agricolo?
Il sentimento del sopravvissuto, che a volte mi
prende nel vedere tante persone sconosciute, nate e
cresciute durante la mia assenza, muoversi per le
vie e le piazze, viene a confondersi col ridestarsi
di antichi sentimenti, la dolcezza e l'ineffabile
malinconia dei ricordi. Il posto è da paradiso, la
distesa d'azzurro pallido del mare, ai margini di un
lembo di terra tra colline e monti, tiene alta la
tenue linea dell'orizzonte. Giovanni dice: "Io sono
nato alcuni mesi dopo l'invasione degli americani.
So solo quel che mi hanno raccontato i genitori. In
un certo senso t'invidio. Anche i miei scapparono
verso la campagna." "La guerra è una tragedia
immane, io ne vissi uno scampolo, significativo e
carico di violenza." Ci spostiamo verso il lato
destro. A terra ci sono delle piume d'uccello in
corrispondenza di uno spacco sulla volta della
grotta. "Ci faranno il nido i colombacci." dice il
mio amico. Andiamo alla grotta adiacente. E' molto
bassa e piccola, come me la ricordavo. Un uomo in
piedi non ci sta. Vi si sistemò Firriera con la sua
famiglia. Avrà goduto di un po' di privacy in più;
noi eravamo in un angolo appartato dell'altra
grotta, ma aperto alla massa di sfollati che via via
vi si installò. Ci sediamo su un pietrone meno
aguzzo. "Sai come ebbe termine la permanenza in
queste grotte?", dico io. "Me ne accennarono i miei,
ma non ricordo granché." risponde Giovanni. "Papà
aveva fatto i conti senza l'oste. Lo spessore della
montagna sopra le grotte era tale da tranquillizzare
rispetto ad eventuali bombardamenti. Ma il pericolo,
come abbiamo sperimentato sulla pelle, non proveniva
solo dal cielo. Di fronte alle grotte, sulla collina
dell'altro versante della valle si snoda la
provinciale Trabia-Calamigna. Su questa strada, che
adesso possiamo intravedere per le auto che la
percorrono, comparvero, scendendo verso Trabia, le
sagome inconfondibili di una interminabile colonna
di carri armati. Nessuno nelle grotte era al
corrente degli ultimi eventi della guerra; non
avevamo radio, né notizie per altri mezzi; non
sapevamo che gli americani erano sbarcati nei pressi
di Gela, senza incontrare quasi resistenza. Al
conducenti dei carri armati non sfuggì il brulichio
di gente in quei buchi scavati nella roccia; quando
i carri furono all'altezza delle grotte, ebbero
l'ordine di puntare i cannoni contro di noi. Nella
grotta grande scoppiò il finimondo: le urla, i
pianti, l'agitazione, la corsa a sbandierare
lenzuoli bianchi su canne, bastoni, rami d'alberi,
con le mani, in segno di resa, era indescrivibile.
Papà, con un gruppo di altri capifamiglia, si buttò
di corsa sulla discesa che va al torrente, per
risalire poi fino alla provinciale e ai carri
armati, nel tentativo di dissuadere i militari dallo
sparare sul mucchio degli sfollati. Credo che gli
americani furono frenati dal quello sventolio di
lenzuoli, rimasero per parecchi minuti fermi, coi
cannoni puntati. Nel frattempo arrivò il gruppo dei
capifamiglia che a gesti, farfugliamenti tra il
siciliano e i rudimenti d'inglese captati dai
parenti emigrati in America, riuscì a far capire che
si trattava di civili sfollati, senz'armi,
inoffensivi. L'ufficiale in capo, un giovane biondo
in divisa cachi, dalla torretta del primo carro, con
un grido secco e un veloce gesto del braccio diede
finalmente l'ordine di proseguire la marcia. Poi
guardò i trafelati padri di famiglia in fila ai
margini della strada e li salutò militarmente,
sorridente. I nostri risposero festosamente,
agitando le mani. Per noi nelle grotte furono
momenti di terribile angoscia, bastava una cannonata
per fare una carneficina. Quando si percepì lo
scampato pericolo, molti si fecero cadere a terra
stremati, altri rimasero come intontiti, parecchi si
abbracciarono tra di loro." Giovanni dice: "Una
bella paura. "Sì, rispondo, " abbiamo visto la morte
con gli occhi. In tempo di guerra la vita umana non
vale nulla." Ormai siamo al solleone, bisogna
affrettarsi a ritornare. Propongo di lasciare l'auto
dove l'abbiamo parcheggiata, per riprenderla in un
secondo tempo con altra auto, e di tornare a piedi
per evitare a quel punto l'impossibile risalita
della montagna. In discesa tutti i santi aiutano.
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