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L'Isola delle Rose: nascita e
morte di un'utopia
Una carta geografica che non
contempli l'isola di Utopia non merita da parte
nostra neanche uno sguardo.
(Oscar Wilde)
Molti hanno sentito parlare di Esperanto, ma pochi
sanno che - seppure per un breve periodo - nazioni
in cui si parlava la lingua internazionale di
Zamenhof sono esistite davvero. In Esperanto esiste
la parola "Esperantujo" che indica quell'ideale
paese in cui si parla tale lingua, e in concreto la
collettività degli esperantisti, sparsi in tutto il
mondo. Scopo della lingua internazionale non è
ovviamente quello di creare una nazione, ma di
espandersi oltre le nazioni, in modo sovranazionale.
Nel corso della sua storia, ormai più che
centenaria, solo due nazioni l'hanno adottata
ufficialmente: il Moresnet e l'Insulo de la Rozoj o
Isola delle Rose.
Colgo l'occasione della recente lettura del romanzo
di Walter Veltroni, "L'isola e le rose", ispirato a
quella vicenda e presentato a Firenze il 16
settembre 2012 presso la festa del PD, per ricordare
questa vicenda priva purtroppo di un lieto fine. La
serata, a cui erano presenti anche il giornalista
Massimo Gramellini e l'allora sindaco Matteo Renzi,
è stata tra parentesi molto deludente: del libro si
è parlato pochissimo, e dell'Esperanto non è stato
fatto neanche il nome. Quasi due ore di noiosissime
chiacchiere sulle primarie e sul ritorno di
Berlusconi tra cui, en passant, dieci minuti scarsi
in cui si è parlato anche dell'Isola.
Il libro non l'avevo ancora letto ma conoscevo la
storia già da molto prima, anzi avevo in mente di
scrivere qualcosa del genere anch'io: sono stato
battuto sul tempo (gli amici a cui ne avevo parlato
possono confermare). Avevo appreso la vicenda in
ambiente esperantista, dove è ben nota.
Riassumendo in poche parole, la storia è questa. Nel
1968, in piena rivoluzione culturale, l'ingegnere
italiano Giorgio Rosa, insieme ad altri ragazzi suoi
amici, dà una realizzazione concreta ad un'utopia:
uno stato indipendente, basato sui principi di
fratellanza e pacifismo che sono propri anche della
lingua di Zamenhof, in cui tale lingua fosse usata
come lingua ufficiale. L'Isola in realtà era una
piattaforma artificiale costruita in acque
internazionali, a 11 chilometri al largo di Rimini:
l'ingegnere Rosa proclamò l'indipendenza dello stato
il 1° maggio del '68, costituendo quella che in
gergo tecnico viene chiamata "micronazione".
Prendendo il nome ufficiale di "Repubblica
Esperantista dell'Isola delle Rose" (in Esperanto "Esperanta
Respubliko de la Insulo de la Rozoj"), la neonata
nazione di dotò di una sua bandiera, un suo governo,
una sua moneta, perfino un'emissione di francobolli
(divenuti in seguito una rarità filatelica).
Molta gente iniziò a visitare l'Isola, e questo
fatto positivo segnò anche la fine dell'utopia
realizzata: lo Stato Italiano, che in teoria non
avrebbe dovuto avere nulla da ridire sulla cosa -
essendo la piattaforma in acque extranazionali -
progettò in breve tempo l'occupazione militare e lo
smantellamento dell'Isola, avvenuto con l'esplosivo
nel febbraio dell'anno successivo. Non essendo stato
riconosciuto ufficialmente da nessuna nazione, il
governo italiano si comportò vigliaccamente da
invasore senza scrupoli, nonostante le proteste
degli abitanti dell'Isola presso le autorità
italiane e le numerose manifestazioni di solidarietà
da parte di riminesi e non solo.
Questi i fatti come si sono svolti nella realtà.
Veniamo ora al romanzo di Veltroni. La storia è più
o meno la stessa, pur romanzata, con tante "licenze
poetiche" ed episodi partoriti dall'immaginazione
dell'autore, il quale ha incontrato di persona
l'ingegner Rosa e lo cita ovviamente nei
ringraziamenti finali, insieme a tanti altri tra cui
anche alcuni esperantisti che conosco anch'io (quali
Carlo Minnaja - a cui devo la correzione del mio
libro di racconti in Esperanto di prossima uscita -
ed Andrea Montagner, presenza costante nei vari
festival e congressi esperantisti a cui ho
partecipato).
Veltroni lega quel passato - il mitico '68 - con il
presente attraverso la memoria suscitata dal
ritrovamento di una "capsula del tempo" preservata
sul fondo dell'Adriatico prima di essere riportata
alla luce da Giovanni, un ragazzo che non ha mai
sentito parlare né di esperanto né dell'Isola, né
tantomeno ha vissuto quel decennio - gli anni
Sessanta - in cui il mondo stava cambiando
rapidamente e tutto sembrava possibile. Giovanni
rivive quel sogno attraverso il racconto commosso di
Andrea, l'anziano nonno di una giovane insegnante di
esperanto a cui il ragazzo si era rivolto per
saperne di più sui fogli scritti in quella strana
lingua rinvenuti nel contenitore riemerso dal mare
(scopriremo poi che il vecchio era uno dei ragazzi
dell'Isola, precisamente il fotografo). Rivive la
Rimini di Fellini e degli altri personaggi famosi
dell'epoca, ma anche della gente semplice, la Rimini
di quattro ragazzi, quattro amici che, ispirati dal
circolo letterario creato da Edgar Allan Poe,
decidono di costruire una piattaforma in mezzo al
mare per ospitarvi artisti di ogni sorta. Al prezzo
di enormi sacrifici anche economici l'isola viene
costruita ed il bar entra in funzione. Arrivano le
prime richieste, numerosissime, per avere una camera
in quello strano albergo, tanto che vengono fatte
degli audizioni (a cui partecipa anche un sedicenne
Vasco Rossi, rifiutato a causa della sua giovane età
- chissà se anche questa è una licenza poetica di
Veltroni o è un fatto vero…). Dall'inaugurare una
sorta di albergo in acque extraterritoriali alla
fondazione di una micronazione il passo è breve ma
non del tutto scontato, tanto che non tutti
aderiscono entusiasticamente all'idea. Il nome c'era
già - ripreso dalla poesia "Il pane e le rose" di
James Oppenheim - così viene creato un "governo"
democratico e viene scelto l'esperanto come lingua
ufficiale, e si pensa anche a tutti gli accessori di
una nazione degna di questo nome, quali francobolli,
monete e una radio libera.
Veltroni insiste molto sul carattere scanzonato ed
estremamente serio al tempo stesso del progetto:
un'esperienza che segnerà profondamente la vita dei
quattro amici e delle persone che frequentano. Si
parla di amori giovanili (la parte più noiosa del
libro), ma si parla anche di rapporti tra genitori e
figli, di morte, di abusi di potere, di onestà
intellettuale, di giornalisti corrotti e giornalisti
onesti, dell'entusiasmo e del sostegno spontaneo dei
riminesi all'Isola, diventata, nei pochi mesi in cui
è esistita, una presenza familiare ed amica insieme
alla musica trasmessa via radio dal mare.
Il tema del libro è la vicenda dell'Isola, ma pare
che la vera protagonista sia l'epoca in cui si
svolge. Veltroni ha riempito il suo romanzo di
citazioni letterarie e musicali di quegli anni,
forse perfino troppe a mio parere: ma immagino che
l'autore abbia vissuto intensamente quegli anni e
non possa farne a meno di guardarli con nostalgia,
rivolgendosi principalmente a chi era giovane negli
anni '60 - a Rimini ma non solo - e che comprende al
volo la musica e la cultura dell'epoca. Io gli anni
'60 li ho "scoperti" molto più tardi (circa una
trentina d'anni dopo, in quegli anni non ero ancora
nati: erano gli anni della gioventù dei miei
genitori) e forse non posso cogliere tanti
riferimenti rispetto a chi li ha vissuti, prendo
comunque per buona la ricostruzione storica. Ciò su
cui avrei un po' da ridire è sull'accuratezza delle
poche frasi in Esperanto, messe in bocca ad uno dei
cattivi, oltretutto sgrammaticate: se da una parte
la presentazione della lingua, che avviene per bocca
della giovane insegnante esperantista, rende
giustizia a Zamenhof, dall'altra sembra quasi uno
sberletto che poi a parlarla sia il cattivo! Ma
d'altronde l'esperanto interessa poco a Veltroni, si
vede: è tuttavia illuminante la rilettura
dell'episodio biblico della torre di Babele che fa
il professor Domenico Barbato, personaggio del
libro, in una conferenza improvvisata davanti ai
ragazzi che lo ascoltano rapiti. Quel discorso ci
aiuta a capire anche come possa essere nato un
tipico pregiudizio verso la lingua di Zamenhof,
sentita dai suoi detrattori come totalitaria e in
concorrenza con dio, il quale avrebbe "confuso le
lingue degli uomini" per fare loro del bene, per
"salvarli dall'uguaglianza". Ma questo è un altro
tema che affronterò magari in un prossimo articolo.
Non è ben chiaro perché alla fine lo Stato Italiano
decida di sgomberare e smantellare la micronazione,
non riconosciuta da nessuno: si parla di timore che
qualche potenza straniera comunista la utilizzi per
istallarvi dei missili, che diventi una sorta di
casinò o un luogo peccaminoso dove le ragazze stanno
in top less, che vada a pestare i piedi alle
compagnie petrolifere o che sia un covo di
sovversivi che diffondono messaggi pericolosi
attraverso una radio libera. O forse semplicemente
perché la libertà, il sogno, l'utopia fanno paura e
si teme che costituiscano un precedente. Segue una
battaglia legale già persa in partenza: è Davide che
sfida Golia, ma dove è il gigante a vincere. Altrove
esperimenti simili hanno vissuto più a lungo, si
pensi a Sealand a nord della Gran Bretagna:
purtroppo è tipico dell'Italia soffocare le idee
rivoluzionarie. Sta di fatto che l'Isola viene fatta
saltare e si inabissa come una novella Atlantide,
per riemergere poi anni dopo sulle pagine dei
quotidiani e delle riviste, quando una nuova ondata
di interesse riporta all'attenzione questa triste
vicenda. L'Isola affondò, ma non l'ideale che
l'aveva fatta nascere, tant'è che se ne parla ancora
a distanza di quasi mezzo secolo. Gli ideali non si
fanno saltare con l'esplosivo, gli ideali sono
immortali.
Firenze, 23 aprile 2016
Bibliografia
1. Veltroni, Walter, L'isola e le rose, Milano,
Rizzoli, 2012
2. Isola delle Rose - la libertà fa paura. (Insulo
de la Rozoj - freedom is frightening) Film
documentario, Cinematica, 2009
3. L'Isola delle Rose, di Giorgio Rosa (documentario
e libro allegato), Persiani Editore.
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