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Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi poetici inediti,
in lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
poesie di Amanda Nebiolo,
Alejandro César Alvarez,
Paolo Del Rosso
Aforismi
Interviste
Paolo Adamo è autore del
romanzo "giovanile": Milano Baby'lone
intervista a cura di
Alessandro Rizzo
Recensioni
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La nave stava per inabissarsi all'argo, circa
due chilometri dalla costa, dopo una collisione con un'altra
nave che esplose, quando dal comando portuale partirono le prime
chiamate di soccorso. La preoccupazione era che a bordo ci
fossero feriti e morti, dato che, secondo una stima
approssimativa, dovevano esserci più di centocinquanta anime. Il
tempo, come sostiene Seneca, è la cosa più preziosa di uomo,
quindi bisognava intervenire. Le anime presenti sulla nave che
di ora in ora inabissava dovevano essere salvate, trasportate in
ospedale, e per le più sfortunate, ahimè, regalare la terra
ferma come sepoltura, prima che il mare le inghiottisse negli
abissi di un cimitero sottomarino. Purtroppo per le persone
presenti sull'altra nave non c'era niente da fare, se non
restare ipnotizzati a vedere l'incendio attorcigliarsi sui loro
cadaveri e su quanto rimaneva della petroliera. Quando giunsero
gli elicotteri dei pompieri, del soccorso medico, della polizia
di stato e quella portuale, il cielo fu sporcato da un rombo
talmente forte che sembrò scendere in terra. I feriti incastrati
tra le macerie dell'imbarco furono portati via dagli elicotteri
gialli, i morti trasportati, con gli scafi della polizia
portuale, a riva, coperti da bianchi lenzuoli, sotto un cielo
grigio di fumo, nell'attesa d'essere identificati, prima della
sepoltura. Molti corpi, però, non furono trovati, dispersi in
mare forse al momento della collisione. Il mare dintorno era
rosso di sangue, disseminato di anfratti, di frammenti di nave,
tra le onde schiumose che riflettevano il cielo. Tuttavia, un
altro problema era al centro del dramma, forse la tragedia non
annunciata ma reale: la nave trasportava, oltre che persone,
container contenenti sostanze chimiche, che una volta disperse
sulle acque avrebbero causato un disastro ambientale. Così,
decisi sul da farsi, reduci d'aver soccorso persone e sepolto
corpi, la nave fu ancorata e portata a riva, in un paio d'ore di
lavoro, lasciando ai flutti solo del sangue, dei frammenti di
vetro, il vuoto dell'epilogo lacerato dal silenzio immemore
tipico del mare. A riva coloro che ne furono usciti indenni,
intervistati dai free-lance della più vicina redazione,
raccontarono il tragico evento. Secondo quanto avrebbero
riferito, al momento della collisione non sentirono il rombo,
placato dal rumore del mare, ma videro un muro pararsi dinnanzi
ai loro occhi, un muro nero, mentre a bordo si spensero le luci
in un vortice di grida e lamenti. Molti di coloro a bordo della
nave persero parenti, amici, fratelli, fidanzati in promessa di
matrimonio, conoscenti che poco prima si erano affacciati nella
loro vita avendo discorso assieme nella promessa di frequentarsi
in un luogo prossimo. Coloro, poco dopo, superato l'ultimo
chilometro che li separava dalla riva, si sarebbero arresi al
viaggio, avrebbero visto il mare dal porto, il mattino farsi
strada tra le schiume in un cielo di madreperla. Invece si
trovavano là, arresi alla tragedia, nello spazio di un'alba
pallida, all'epilogo di una collisione assassina.
La nave arenata sulla riva aspettava d'essere portata al rifugio
che custodisce le imbarcazioni reduci da sinistri, prima
d'essere spogliata dai container letali. Caso volle, invece, che
rimase insabbiata per giorni, così com'era, a piangere veleno,
in memoria di un accaduto senza senso. Le perizie declamarono
che la causa della tragedia fu un errore umano e tutto si limitò
a questo. Solo i giornalisti continuarono a scriverci sopra,
sostituendo quel mare infinito con un oceano d'inchiostro,
indossando colpa a coloro che ne erano privi, dando per morto
chi era vivo, dando per vivo un disperso qualunque. Della immane
tragedia non rimasero che articoli poetici, corsivi
d'opinionisti ipocriti, titoli dai caratteri cubitali, necrologi
di persone non ancora decedute, qualche croce di troppo, un Ave
Maria, qualche Pater Nostro, e la nave che sprigionava veleno.
Tragedia stamani a largo del mar Tirreno, una nave, che
trasportava persone e container contenenti sostanze chimiche, si
è scontrata a prua con una vecchia petroliera proveniente dal
porto di Genova. L'imbarco sembra che stia per inabissarsi,
mentre la petroliera, subito dopo la collisione, ha preso fuoco.
I soccorsi, provenienti da varie zone costiere della Toscana e
della Liguria, sono giunti tempestivamente sul luogo
dell'accaduto. Secondo le stime a bordo della nave ci sarebbero
state, al momento della tragedia, più di centocinquanta persone,
la maggior parte rimaste ferite. Durante il sopralluogo dei
soccorsi, i deceduti sarebbero stati portati a riva per il
riconoscimento d'identità. Purtroppo, da quanto emerge, molti
sarebbero i dispersi, perlopiù senza un'identità conosciuta. La
carcassa della nave è stata portata a riva, in attesa d'essere
trasportata al rifugio. Tuttavia, il dramma non sembra essersi
concluso. La nave trasportava, infatti, container di sostanze
velenose che a causa della collisione in parte si sono disperse
in mare. La capitaneria di porto ha vietato ogni tipo di
transito per circa una decina di chilometri dal teatro della
tragedia. Persino il tratto di spiaggia dove adesso si trova la
nave è stato recintato. E' vietato severamente avvicinarsi alla
carcassa e tanto meno inoltrarsi a nuoto o su imbarcazioni nel
tratto di mare segnalato. Il pericolo di un disastro ambientale
è in agguato, tanto che neppure gli addetti ai lavori, i biologi
consultati, gli scienziati chimici se la sentano di pronunciarsi
sugli effetti che potrebbero verificarsi. L'unica speranza e che
gli addetti trasportino il prima possibile la carcassa della
nave che, ancor munita dei container, non solo riposa sulla riva
ma sembra sprigionare veleno.
Attonito dalla tragedia anch'io ero tra coloro che inermi
guardavano il disastro accaduto. Defilandomi dalla ressa che nel
frattempo si era accalcata lungo la riva, al di qua della
recensione, incontrai il mio amico Antonio. Ciao Antony, come
stai? Hai visto che disastro, che tragedia, purtroppo non si
finisce mai di imparare nella vita. Ma piuttosto, come ti butta?
Mah! Come vuoi che vada? Va! Torno adesso da scuola. Sai oggi ho
fatto una lezione su Dante, sul trentunesimo canto dell'Inferno,
e quasi per magia, le parole di Ulisse sembrano essere in
sintonia con quanto accaduto. Sì, ai proprio ragione: è una
tragedia. Poveracci, pace all'anima loro. Veniamo a noi, disse
lui, tu piuttosto cosa fai stasera? Bah! Non so, probabilmente
passo da Ernesto, vuol giocare a carte, ha invitato della gente
da Arezzo per un poker veloce. Come sai Ernesto è un baro, ma
baro lui, baro io, la partita dovrebbe essere vinta. E tu, che
intenzioni hai per la serata? Dovrei vedermi con Clara perché
dice che la viene a trovare un'amica da Follonica, ma quasi
quasi ti chiamo e veniamo tutti da Ernesto. Appena giunsi a casa
squillò il telefono: Pronto! Pronto, Dario, sono Antonio. Senti
ho parlato con Clara, stasera, sempre se non vi dispiace, siamo
dei vostri. Dove ci incontriamo? Al solito posto? Certo, al
solito posto ma non alla stessa ora, mi sa che dovremmo
posticipare di un po'. Ernesto torna dal cantiere alle ventuno e
sai com'è, si deve fare una doccia, cambiarsi e poi veniamo.
Allora alle ventidue alla rotonda, sotto il canniccio del Bar
Corona, siamo intesi.
Riposta la cornetta rimasi in balia dei pensieri. Quello che era
accaduto poco dopo l'alba per me era un segno premonitore. Non
si trattava di un incidente, era probabilmente un segno che
qualcosa, o qualcuno, ci aveva mandato dal cielo, o da qualche
luogo ignoto, per riflettere sulla nostra vita, sui nostri
giorni, sul presente schiacciato dal passato e insipido, se non
privo, di futuro. Da tempo si viveva d'espedienti, vivevamo a
seconda del vento, abbandonati alla fede del Dio-denaro, in un
carnevale d'ombre e di paure. Antonio, Antony per gli amici,
insegnava al liceo classico italiano, storia e filosofia, solo
per avere lo stipendio. Io, Dario Del Bene, laureato in lettere,
facevo lo scrittore a tempo alternato, alle prese con un film,
del quale ero il regista e l'autore, tratto da uno dei miei
racconti. Il film, che voleva essere, forse come questa
confessione, una parodia di una pellicola di Federico Fellini,
doveva intitolarsi La Città delle finte donne.
Clara era allora una donna, finta, e a lei mi ero ispirato per
il film. Viveva sul lungomare e passava il giorno a dormire, se
non aveva appuntamenti osé, vivendo appuntamenti notturni. Poi
c'era Ghigo, il principe sul pisello, uno scansafatiche tutto
mamma e poker, col quale ci vedevamo sotto il canniccio del Bar
Corona assieme agli altri. Infine Ernesto, il figlio del
droghiere di Via A. Bakunin, operaio navale, sottoposto della
ditta F.lli Lastrucci. Certo, avevamo anche donne nella
compagnia, vere s'intende, no come Clara, che però si
frequentavano poco, a causa dei loro legami familiari: erano
tutte coniugate. La nostra esistenza, e non è un eufemismo, come
quella altrui in generale, era priva di speranza. Una vita non
vita, finta, fatta solo di lavoro (a volte), d'uscite notturne e
di scopate frettolose, magari sotto i timidi lampioni del
lungomare, o tra le lenzuola (di niloin) scippate ad un ignoto
senzatetto, spesso consumata in un sorso di Popper inalato
velocemente di nascosto in strada. Insomma, si trattava di una
vita bit, come direbbero gli americani, bruciata, come dicono
gli italiani, carbone, come la definisco io. Presente
schiacciato da un passato grande, seguito da un futuro
(in)certo. I giorni ci passavano così in rassegna senza che ce
ne rendessimo conto e spesso mi capitava di rifletterci sopra,
magari osservando il fondo schiumoso di un boccale stracolmo di
birra. Il nostro ritrovo era al Bar Corona, un piccolo locale a
ridosso della darsena, dove il proprietario ci viveva, ci
dormiva, non avendo casa, non badando all'igiene e alle norme di
buon costume. Ernesto veniva solo la sera, reduce da una
giornata al cantiere, così come Antonio, Clara e le altre a
giorni alterni, mentre io ci passavo giornate intere, portandomi
dietro il portatile per scrivere, con la speranza di cogliere il
segnale favorevole per navigare su internet. Per la maggiore
sostavamo sotto la pergola di canniccio, guardando il mare,
riempita dagli echi delle risate, dagli accenti afoni delle
nostre voci rotte, dal fumo delle sigarette, dall'odore acre
della cannabis fumata che Antonio, per precauzione, conservava
nei calzini. Il Bar Corona era casa nostra, a qualunque ora del
giorno potevano accedervi, invitando Alvaro, il folle
proprietario, a versarci nel bicchiere un drink per brindare ad
un altro giorno inutile, uguale a quello precedente e,
probabilmente, a quello successivo. Sembrava non esserci più
speranza, almeno per noi, non so un'ancora di salvezza. La terra
era diventata per noi qualcosa di alieno, di sconosciuto, un
labirinto consueto di bestemmie, di fumo, di speranze interrotte
da bevute infinite di birra, liquori e caffè senza zucchero.
Dovevamo cercare un'alternativa, ma non sapevamo cosa fare, dove
cercarla, come risolvere il meccanismo dell'esistenza che, come
una giostra circolare, ci escludeva ogni qual volta faceva
giorno. Almeno, pensandoci, Ernesto lavorava, così Antonio,
Clara, che si prostituiva, ma io? Io cosa facevo? Lo scrittore,
vale a dire lavoravo sette giorni su sette, cercando di
innamorarmi di storie che avrei trascritto senza pudore, o senza
la minima esitazione. Come nel caso del film La Città delle
finte donne, che non ebbi ispirazione nel finirlo e, privo
d'epilogo, giaceva nel dimenticatoio di qualche angolo del mio
appartamento, magari tra le fila di qualche superalcolico di
scorta.
Il film non aveva avuto un epilogo, ma la nostra esistenza
poteva mai averlo? Tante volte ci pensavo e nella maggior parte
dei casi non ne vedevo una fine, il calare del sipario, la
scritta in caratteri cubitali "the and". Tutti noi eravamo
imprigionati nelle nostre esistenze sinistre, tra le mura
sottili e insidiose dell'apatia, nel labirinto infinito del
quale non sapevamo vederne la fine. Il telefono squillò di
nuovo: Pronto! Ciao Dario, sono sempre io Antony. Senti dicevamo
con Clara e gli altri se questa sera invece di andare a casa di
Ernesto ci vediamo alla nave del disastro. Cosa ne pensi, ti va?
Come alla nave! Guarda che per quanto ne sappia è severamente
vietato, ne hanno parlato tutti i giornali. La carcassa sembra
che sprigioni del veleno dai container. Sì lo so, ma si va per
fare qualcosa di diverso. Magari ci si disinibisce un po'.
Sicuramente facciamo qualcosa di nuovo. Ma Ernesto, non voglio
che rimanga offeso… Poi andrà avvertito. Ernesto sa tutto, l'ho
chiamato prima al cellulare, durante l'ora pranzo: è d'accordo.
Anzi, persino gli ospiti da Arezzo vengano. Dai, sarà una serata
particolare. Allora alle dieci al Bar Corona? Sì alle dieci,
come sempre, stesso posto.
Come sempre ero arrivato in anticipo nel luogo
dell'appuntamento. Un vento gelido spazzava il piazzale
antistante al bar e i timidi lampioni sembravano screpolare
l'ombra della notte con riflessi giallastri. Per ammazzare il
tempo mi misi a fumare appoggiandomi alla colonna del lampione
guardando il mare invisibile, cancellato dal buio e tormentato
dal vento. Alla fine mi decisi ad entrare nel bar e ordinai
l'ennesima birra. Finalmente arrivò Ernesto e a seguire Clara
Antony e le altre. Gli ospiti di Arezzo, due fidanzati con
l'hobby delle carte, tremavamo dal freddo, silenziosi nei loro
paltò, quasi timidi, pigri nel presentarsi. Dopo una seconda
birra, un amaro per Ernesto, un drink per Antony e uno per
Clara, decidemmo di andare. La passerella che attraversava la
spiaggia era ricoperta di sabbia e la notte nascondeva le dune,
confondeva l'odore della salsedine con i nostri ardori, spezzava
l'orizzonte del mare che si percepiva ma non si vedeva. Alle
nostre spalle la città era un fiume di luci, di riflessi che
ferivano i nostri occhi donandoci una felicità insolita. A fine
del percorso arrivammo davanti alla nave. Del relitto se ne
vedeva soltanto l'ombra che, come un cerchio concentrico,
formava una gran campana buia sul buio della notte. La nave era
immensa, simile ad un palazzo di cinque piani. Sembrava dormire
sul ricordo di quella che fu, sulle rotte dimenticate, un
labirinto di legno dove solo i pirati, reduci da millenari
viaggi, potevano abitarla sbarcandoci il lunario. Ernesto prima
di salire a bordo volle fare una perlustrazione esterna,
osservare da vicino la prua schiacciata, le tavole delle pareti
divelte, gli oblò sfondati. Fu in quel momento che ci accorgemmo
di non essere i soli ad aver approfittato dell'occasione. Voci,
risate, gemiti fuoriuscivano dall'interno messo a soqquadro
dalla collisione assassina. Quando salimmo a bordo dalla
passerella principale non ci saremmo mai aspettati di trovarci
in un circo. Mezza città si era trasferita sul relitto senza la
minima esitazione, senza il minimo timore per le sostanze
chimiche che la nave sprigionava. Alcuni ragazzi, contenti di
fare una cosa diversa dal solito, felici di avere un proprio
spazio, s'improvvisavano funamboli, altri, vestiti da clown,
girovagavano per la nave su bicicli sbilenchi, altri ancora,
senza pudore, si stavano amando tra le macerie. Alcune persone
avevano pensato bene di portarsi dietro le cineprese, così,
sgombri dalla fatiche quotidiane, improvvisavano scene erotiche,
per non dire pornografiche, filmate con la presunzione da
registi di fama. Noi, come si era fissato dal mattino, giocammo
a poker per quasi tutta la notte, poi si proseguì l'assedio con
violenza. Fu in quella notte che riuscii a scoparmi Clelia. Fino
allora avvertivo repulsione nei suoi confronti. Sì certo, la
volevo bene, ma non in senso carnale. Nei fui folgorato. A farci
compagnia venne Ernesto, desideroso di avere un rapporto a tre.
Facemmo l'amore, ricordo sino all'alba, sino a quando i primi
raggi di sole non ci sorpresero in quel tugurio dimenticato. I
riflessi che penetravano dalle ferite della nave lambivano i
nostri visi pallidi, esitanti persino di guardarsi allo
specchio. Guardandoci in faccia, dopo un risveglio traumatico,
dopo un sonno comatoso, non restava che contarci le rughe del
disprezzo per quello che avevamo fatto. Ernesto ed io eravamo
ancora nudi, mentre Clara aveva avuto il buon gusto, non so
forse il pudore, di coprirsi con una tavola divelta. Al nostro
risveglio, come la notte precedente, non eravamo soli. Il circo
della sera prima adesso era in pausa, i circensi improvvisati,
dai visi bianchi e le cosce aperte, dormivano poco lungi da noi.
Antony nel contempo era andato al Bar Corona a prenderci la
colazione e quando arrivò al nostro capezzale l'odore del caffè
si mescolò con l'acre profumo della cannabis, dei corpi
dormienti, interrompendo gli ultimi frammenti di un sogno
recente. Di un ambito sogno tramontato prima di giungere ad un
epilogo. Il tempo passava, dal nostro risveglio erano passate
circa tre ore e tutto riprese a vivere come in precedenza.
Ricomparvero i funamboli, i Clown, gli amanti, i registi in
erba, con l'aggiunta delle cartomanti, di architetti falliti,
poeti sconosciuti, muratori, zingare che leggevano mani, insomma
un intera città. Ci venne a trovare persino il proprietario del
Bar Corona. Se Maometto non va dalla montagna, la montagna va da
Maometto, ci disse, con in faccia stampato un sorriso che la
diceva lunga. Sulla nave conobbi persino Casanova, Leonardo Da
Vinci, Lisa Gherardini, la Gioconda, nuda tra le macerie a farsi
ritrarre dal mitico toscano. Infine conobbi Michelangelo che,
non so perché, sentita la notizia si era messo in testa di fare
della nave una cappella Sistina in miniatura. Per poi non
parlare di Melville, ispirato a scrivere un nuovo romanzo,
intitolato, da quanto potevo capire, La collisione: cronaca
delle disavventure di mille balene bianche. Melville, mi scusi,
so di non essere alla sua altezza ma non potrebbe intitolarlo
soqquadro. Lo sa che lei è impertinente, come si permette di
interrompermi mentre scrivo? Al limite, tanto per farla felice,
potrei intitolarlo Amen, in senso ironico s'intende, tanto per
sdrammatizzare. No, io volevo solo… Lei… Ma mi faccia il
piacere, vada, vada dai suoi amici. Ernesto, che nel frattempo
era sceso dall'edicolante, arrivò con una novità che ci
riguardava. Il giornalista dell'articolo, a seguito di una fuga
di notizie, riportava a pieno titolo l'assurdità di quest'assedio.
Ma era chiaro che non ce l'avessero con noi, ma con coloro che
avevano lasciata incustodita la nave per diversi giorni, che non
avevano portato via i container contenenti veleno, che, non
rendendosi conto della gravità, lasciarono incuranti il relitto
sulla spiaggia.
E' un vero e proprio assedio, quello messo in atto da alcuni
ragazzi della nota cittadina costiera a bordo della nave,
vittima del disastroso incidente. Secondo quanto accaduto, i
ragazzi, perlopiù noti in città, hanno preso d'assalto il
relitto da un paio di giorni, sfidando la sorte. La nave,
arenata sulla spiaggia dopo la collisione, rimane un costante
pericolo per l'ambiente. Al momento dell'incidente, infatti,
oltre alle persone, l'imbarcazione trasportava container
contenenti sostanze chimiche, altamente intossicanti. Queste
sostanze possono, infatti, procurare serie patologie non solo
alla pelle, ma soprattutto all'apparato respiratorio e allo
stato generale della salute. Purtroppo, il mancato trasporto del
relitto nella rimessa dovuta da parte delle amministrazioni
competenti mette a serio rischio la natura della costa
versigliese. La nave, o ciò che di essa rimane, rappresenta un
serio rischio per l'impatto ambientale. Tornando ai ragazzi,
questo articolo vuole essere un avvertimento per la loro salute.
I giovani che in questi giorni si trovano a bordo
dell'imbarcazione, oltre a mettere in serio rischio la propria
incolumità fisica, rischiano di mettere a repentaglio la salute
degli altri cittadini. Il rischio di un contagio è alto. Detto
questo, non si riesce ancora a comprendere come mai le forze di
competenza non abbiano ancora provveduto alla rimozione del
relitto. Ci auguriamo che dopo la pubblicazione di questo
articolo qualcosa di positivo accada. Ci vorrebbe, infatti, una
svolta radicale per dimenticare il triste accaduto e cercare,
con la buona volontà, di rimediare al problema.
La situazione stava precipitando in un baratro del quale non
avremmo visto la fine. Oltre al circo, ai giochi squallidi, ai
filmini porno, adesso c'era chi faceva sciacallaggio. Molte
persone, probabilmente non del posto, si precipitarono a rubare
ciò che rimaneva dopo l'incidente. Molti di loro si portarono
via un sacco di cose, deturparono l'intero relitto dalla prua
alla poppa sino a sovraccoperta senza la minima esitazione. Nel
contempo noi continuavamo a giocare a poker, a dialogare sui
ricordi, versandoci birra nei calici col pretesto di brindare
all'assurdo accaduto. Alcuni si portarono via persino le
scialuppe, caricandole sui cassoni dei furgoni. Il regista in
erba, che proseguiva il proprio lavoro indisturbato, aveva preso
il relitto per un mini teatro di posa. Ora immagini girate e
montate con tutta fretta, di donne e uomini in una guerra di
sesso, in un intreccio di corpi, erano proiettate sulle pareti
ferite della nave. Tutto questo era assurdo, il bello e che lo
sapevamo ma non ci riusciva venirne a capo. Oramai, sia io che
Ernesto, Antonio, Clara, gli ospiti di Arezzo, eravamo in balia
dell'assurdo, di un assedio senza epilogo. L'unica cosa
positiva, o forse negativa, e che là sopra trovai di nuovo
ispirazione. Dopo aver passato una notte a fare sesso con Clara
ed Ernesto iniziai a scrivere un romanzetto. La sera
dell'assedio mi ero portato dietro il mio portatile, come sempre
d'altronde, e così avevo cominciato a scrivere una decina di
pagine. La storia era di un regista teatrale senza più
ispirazione, il quale dopo una notte d'amore con una prostituta
di nome Antonella inizia a costruirsi una serie di scene
mentali, dialogate, che riuscirà a mettere in scena su di una
nave abbandonata. Perlopiù il romanzo era incentrato sui
monologhi di costui e su quelli di Antonella, grazie ai quali la
storia prendeva corpo sino a raggiungere un finale di grande
maestria. La scena ultima prevedeva, infatti, il suicidio del
maestro che, stanco di vivere, decideva di darsi alla morte. La
trama era buona tutto sommato, se non fosse stato per Ernesto
che mi consiglio, forse ispirato dal cineasta coinquilino, di
riprendere in mano il mio film. Debbo dire che non aveva torto.
La città delle false donne poteva finire proprio su questa nave,
magari con un epilogo a sorpresa. Tutto era perfetto. I clown
c'erano, le prostitute pure, i trans non mancavano mai
all'appello, la nave l'avevamo, quindi potevamo iniziare. Visto
che il cineasta in erba era reduce dalle riprese chiesi se mi
poteva imprestare la cinepresa. Iniziai, esitando forse sul
finale. La fortuna mi era corsa in aiuto. Al momento del primo
ciak, uno dei ragazzi circensi iniziò a sentirsi male.
Svenivano, cadevano a terra rapiti da un sonno profondo. Prima
di sera molte persone stavano male, alcune addirittura
sembravano morte. Io mi divertivo a filmare le immagini, perché
mai mi era capitata una cosa del genere. Nel frattempo, come il
protagonista del romanzo che avevo improntato, uno dei ragazzi
tentò di suicidarsi, gettandosi in mare dal ponte della nave. Un
suicidio annunciato che, però, invece di decretarne la morte gli
procurò un timido fastidio: la respirazione bocca a bocca di una
delle ragazze del porno. Accidenti! Avevo le carte in regola per
completare il film eppure qualcosa mancava. Ma non tardò ad
arrivare, l'epilogo sperato. Il ragazzo di prima adesso si era
suicidato veramente e dietro di lui anche una ragazza dei
circensi. Tutti gli altri stavano male, probabilmente
intossicati dalle sostanze chimiche dei container. Quando
giunsero le ambulanze a soccorrere gli sventurati ragazzi,
oramai il film lo avevo completato. Coloro che si erano
intossicati furono portati in ospedale, ma molti di loro al
cimitero. A film finito, dopo tutti i poker vinti per mano di
Antonimo, decidemmo anche noi di tornarsene in città, di
scendere dal relitto e riprendere la vita quotidiana là dove
l'avevamo interrotta. Adesso, il dramma era di prendere
coscienza di quello che avevamo commesso, di recuperare in noi
la coscienza smarrita. Capimmo così che questa avventura oltre
ad essere il finale del mio film, finalmente compiuto, oltre ad
essere stata un passatempo piacevole, un assedio giocoso, era la
fine dei nostri incontri. Eravamo tutti sulla soglia dei
quarant'anni e ci comportavamo come dei ragazzini. Sul
lungomare, guardando da lontano la nave derelitta, decidemmo di
mettere ordine alle nostre esistenze. Antonio prese occasione,
dietro il suo trasferimento didattico, di trasferirsi a
Moncalieri, Ernesto convenne nel dire di mettersi a fare una
vita più seria, da quarantenne, Clara disse che voleva
continuare a fare la prostituta ma si è suicidata dopo un paio
di mesi dal nostro congedo, Ghigo lo hanno trovato morte per
overdose d'eroina dietro la porta di casa. Dicono che il corpo
fosse irriconoscibile, gonfio, pallido, contratto e dalle
braccia piene di lividi. Lo trovarono così, muto come silenziosa
fu la sua esistenza, con al braccio sinistro il laccio e la
siringa a terra. Nel frattempo gli ospiti di Arezzo sono tornati
a casa loro e li ho persi di vista. Al sottoscritto hanno
pubblicato il primo romanzo e adesso gli hanno commissionato un
nuovo film, visto che La città delle finte donne è in concorso a
Venezia. La nave, o quello che di essa rimaneva, è stata rimossa
come si voleva dimostrare. Il Bar Corona ha chiuso i battenti.
Il proprietario adesso e in pensione e vive in un trullo nella
Puglia salentina, tra i ricordi dell'infanzia che fu e tra la
tranquillità dei giorni tutti uguali. Giovedì della prossima
settimana ho un appuntamento con un produttore giapponese: del
mio primo romanzo vorrebbero trarci un film. Per adesso vivo
così, da ricco direi, avendo venduto più di tremilioni di copie.
Mi sono comprato una villa a Hollyvood, con tanto di piscina, ma
per la maggiore vivo in Toscana, lungo le mie coste. Della nave
e di quell'avventura mi è rimasto solo un flebile ricordo, così
delle facce, delle persone, che adesso, quasi per incanto,
annegano poeticamente nel mare della memoria.
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