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Narrativa

Top nonik (seconda parte) di Massimo Acciai, A modo mio di Massimo Acciai, Zone Franche di Giuseppe Costantino Budetta, Un'Utopia liscia di Andrea Cantucci, Il viaggio di Rossana D'Angelo, Cum res ita sint (preghiera) di Paolo Filippi, Prologo per Selinunte di Paolo Filippi, Prologo per Antonella di Paolo Filippi, Pensieri concertanti di Paolo Filippi, Il giallo e il nero di Maddalena Lonati, Sinestesie di Maddalena Lonati, L'ombra di Maddalena Lonati, L'Assedio di Iuri Lombardi, Isaia di Matteo Nicodemo

Poesia italiana

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
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Poesia in lingua

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Aforismi

10 AFORISMI in poesia...
di Andrea Cantucci  

Interviste

Paolo Adamo è autore del romanzo "giovanile": Milano Baby'lone intervista a cura di Alessandro Rizzo

Recensioni

- Delle marionette, dei burattini e del Burattinaio di Liliana Ugolini, nota di Massimo Acciai
- Il mangiatore di pietre di Davide Longo, recensione di Simonetta De Bartolo
- Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero di George Steiner, recensione di Antonio Carollo
- Gioco perverso di Italo Moscati
- Evoluzioni 14 di Marco Milani
- Sopra e sotto di Roberto Casalena, nota di Enrico Pietrangeli
- Dipintore di sogni di Cesare Lorefice, nota di Anna Maria Volpini
- La bambina è soprappensiero e non lo dice di Martina Magno
- Il mercante di eresie di Andrea Moneti

L'Assedio
 

di Iuri Lombardi


La nave stava per inabissarsi all'argo, circa due chilometri dalla costa, dopo una collisione con un'altra nave che esplose, quando dal comando portuale partirono le prime chiamate di soccorso. La preoccupazione era che a bordo ci fossero feriti e morti, dato che, secondo una stima approssimativa, dovevano esserci più di centocinquanta anime. Il tempo, come sostiene Seneca, è la cosa più preziosa di uomo, quindi bisognava intervenire. Le anime presenti sulla nave che di ora in ora inabissava dovevano essere salvate, trasportate in ospedale, e per le più sfortunate, ahimè, regalare la terra ferma come sepoltura, prima che il mare le inghiottisse negli abissi di un cimitero sottomarino. Purtroppo per le persone presenti sull'altra nave non c'era niente da fare, se non restare ipnotizzati a vedere l'incendio attorcigliarsi sui loro cadaveri e su quanto rimaneva della petroliera. Quando giunsero gli elicotteri dei pompieri, del soccorso medico, della polizia di stato e quella portuale, il cielo fu sporcato da un rombo talmente forte che sembrò scendere in terra. I feriti incastrati tra le macerie dell'imbarco furono portati via dagli elicotteri gialli, i morti trasportati, con gli scafi della polizia portuale, a riva, coperti da bianchi lenzuoli, sotto un cielo grigio di fumo, nell'attesa d'essere identificati, prima della sepoltura. Molti corpi, però, non furono trovati, dispersi in mare forse al momento della collisione. Il mare dintorno era rosso di sangue, disseminato di anfratti, di frammenti di nave, tra le onde schiumose che riflettevano il cielo. Tuttavia, un altro problema era al centro del dramma, forse la tragedia non annunciata ma reale: la nave trasportava, oltre che persone, container contenenti sostanze chimiche, che una volta disperse sulle acque avrebbero causato un disastro ambientale. Così, decisi sul da farsi, reduci d'aver soccorso persone e sepolto corpi, la nave fu ancorata e portata a riva, in un paio d'ore di lavoro, lasciando ai flutti solo del sangue, dei frammenti di vetro, il vuoto dell'epilogo lacerato dal silenzio immemore tipico del mare. A riva coloro che ne furono usciti indenni, intervistati dai free-lance della più vicina redazione, raccontarono il tragico evento. Secondo quanto avrebbero riferito, al momento della collisione non sentirono il rombo, placato dal rumore del mare, ma videro un muro pararsi dinnanzi ai loro occhi, un muro nero, mentre a bordo si spensero le luci in un vortice di grida e lamenti. Molti di coloro a bordo della nave persero parenti, amici, fratelli, fidanzati in promessa di matrimonio, conoscenti che poco prima si erano affacciati nella loro vita avendo discorso assieme nella promessa di frequentarsi in un luogo prossimo. Coloro, poco dopo, superato l'ultimo chilometro che li separava dalla riva, si sarebbero arresi al viaggio, avrebbero visto il mare dal porto, il mattino farsi strada tra le schiume in un cielo di madreperla. Invece si trovavano là, arresi alla tragedia, nello spazio di un'alba pallida, all'epilogo di una collisione assassina.
La nave arenata sulla riva aspettava d'essere portata al rifugio che custodisce le imbarcazioni reduci da sinistri, prima d'essere spogliata dai container letali. Caso volle, invece, che rimase insabbiata per giorni, così com'era, a piangere veleno, in memoria di un accaduto senza senso. Le perizie declamarono che la causa della tragedia fu un errore umano e tutto si limitò a questo. Solo i giornalisti continuarono a scriverci sopra, sostituendo quel mare infinito con un oceano d'inchiostro, indossando colpa a coloro che ne erano privi, dando per morto chi era vivo, dando per vivo un disperso qualunque. Della immane tragedia non rimasero che articoli poetici, corsivi d'opinionisti ipocriti, titoli dai caratteri cubitali, necrologi di persone non ancora decedute, qualche croce di troppo, un Ave Maria, qualche Pater Nostro, e la nave che sprigionava veleno.


Tragedia stamani a largo del mar Tirreno, una nave, che trasportava persone e container contenenti sostanze chimiche, si è scontrata a prua con una vecchia petroliera proveniente dal porto di Genova. L'imbarco sembra che stia per inabissarsi, mentre la petroliera, subito dopo la collisione, ha preso fuoco. I soccorsi, provenienti da varie zone costiere della Toscana e della Liguria, sono giunti tempestivamente sul luogo dell'accaduto. Secondo le stime a bordo della nave ci sarebbero state, al momento della tragedia, più di centocinquanta persone, la maggior parte rimaste ferite. Durante il sopralluogo dei soccorsi, i deceduti sarebbero stati portati a riva per il riconoscimento d'identità. Purtroppo, da quanto emerge, molti sarebbero i dispersi, perlopiù senza un'identità conosciuta. La carcassa della nave è stata portata a riva, in attesa d'essere trasportata al rifugio. Tuttavia, il dramma non sembra essersi concluso. La nave trasportava, infatti, container di sostanze velenose che a causa della collisione in parte si sono disperse in mare. La capitaneria di porto ha vietato ogni tipo di transito per circa una decina di chilometri dal teatro della tragedia. Persino il tratto di spiaggia dove adesso si trova la nave è stato recintato. E' vietato severamente avvicinarsi alla carcassa e tanto meno inoltrarsi a nuoto o su imbarcazioni nel tratto di mare segnalato. Il pericolo di un disastro ambientale è in agguato, tanto che neppure gli addetti ai lavori, i biologi consultati, gli scienziati chimici se la sentano di pronunciarsi sugli effetti che potrebbero verificarsi. L'unica speranza e che gli addetti trasportino il prima possibile la carcassa della nave che, ancor munita dei container, non solo riposa sulla riva ma sembra sprigionare veleno.

Attonito dalla tragedia anch'io ero tra coloro che inermi guardavano il disastro accaduto. Defilandomi dalla ressa che nel frattempo si era accalcata lungo la riva, al di qua della recensione, incontrai il mio amico Antonio. Ciao Antony, come stai? Hai visto che disastro, che tragedia, purtroppo non si finisce mai di imparare nella vita. Ma piuttosto, come ti butta? Mah! Come vuoi che vada? Va! Torno adesso da scuola. Sai oggi ho fatto una lezione su Dante, sul trentunesimo canto dell'Inferno, e quasi per magia, le parole di Ulisse sembrano essere in sintonia con quanto accaduto. Sì, ai proprio ragione: è una tragedia. Poveracci, pace all'anima loro. Veniamo a noi, disse lui, tu piuttosto cosa fai stasera? Bah! Non so, probabilmente passo da Ernesto, vuol giocare a carte, ha invitato della gente da Arezzo per un poker veloce. Come sai Ernesto è un baro, ma baro lui, baro io, la partita dovrebbe essere vinta. E tu, che intenzioni hai per la serata? Dovrei vedermi con Clara perché dice che la viene a trovare un'amica da Follonica, ma quasi quasi ti chiamo e veniamo tutti da Ernesto. Appena giunsi a casa squillò il telefono: Pronto! Pronto, Dario, sono Antonio. Senti ho parlato con Clara, stasera, sempre se non vi dispiace, siamo dei vostri. Dove ci incontriamo? Al solito posto? Certo, al solito posto ma non alla stessa ora, mi sa che dovremmo posticipare di un po'. Ernesto torna dal cantiere alle ventuno e sai com'è, si deve fare una doccia, cambiarsi e poi veniamo. Allora alle ventidue alla rotonda, sotto il canniccio del Bar Corona, siamo intesi.
Riposta la cornetta rimasi in balia dei pensieri. Quello che era accaduto poco dopo l'alba per me era un segno premonitore. Non si trattava di un incidente, era probabilmente un segno che qualcosa, o qualcuno, ci aveva mandato dal cielo, o da qualche luogo ignoto, per riflettere sulla nostra vita, sui nostri giorni, sul presente schiacciato dal passato e insipido, se non privo, di futuro. Da tempo si viveva d'espedienti, vivevamo a seconda del vento, abbandonati alla fede del Dio-denaro, in un carnevale d'ombre e di paure. Antonio, Antony per gli amici, insegnava al liceo classico italiano, storia e filosofia, solo per avere lo stipendio. Io, Dario Del Bene, laureato in lettere, facevo lo scrittore a tempo alternato, alle prese con un film, del quale ero il regista e l'autore, tratto da uno dei miei racconti. Il film, che voleva essere, forse come questa confessione, una parodia di una pellicola di Federico Fellini, doveva intitolarsi La Città delle finte donne.
Clara era allora una donna, finta, e a lei mi ero ispirato per il film. Viveva sul lungomare e passava il giorno a dormire, se non aveva appuntamenti osé, vivendo appuntamenti notturni. Poi c'era Ghigo, il principe sul pisello, uno scansafatiche tutto mamma e poker, col quale ci vedevamo sotto il canniccio del Bar Corona assieme agli altri. Infine Ernesto, il figlio del droghiere di Via A. Bakunin, operaio navale, sottoposto della ditta F.lli Lastrucci. Certo, avevamo anche donne nella compagnia, vere s'intende, no come Clara, che però si frequentavano poco, a causa dei loro legami familiari: erano tutte coniugate. La nostra esistenza, e non è un eufemismo, come quella altrui in generale, era priva di speranza. Una vita non vita, finta, fatta solo di lavoro (a volte), d'uscite notturne e di scopate frettolose, magari sotto i timidi lampioni del lungomare, o tra le lenzuola (di niloin) scippate ad un ignoto senzatetto, spesso consumata in un sorso di Popper inalato velocemente di nascosto in strada. Insomma, si trattava di una vita bit, come direbbero gli americani, bruciata, come dicono gli italiani, carbone, come la definisco io. Presente schiacciato da un passato grande, seguito da un futuro (in)certo. I giorni ci passavano così in rassegna senza che ce ne rendessimo conto e spesso mi capitava di rifletterci sopra, magari osservando il fondo schiumoso di un boccale stracolmo di birra. Il nostro ritrovo era al Bar Corona, un piccolo locale a ridosso della darsena, dove il proprietario ci viveva, ci dormiva, non avendo casa, non badando all'igiene e alle norme di buon costume. Ernesto veniva solo la sera, reduce da una giornata al cantiere, così come Antonio, Clara e le altre a giorni alterni, mentre io ci passavo giornate intere, portandomi dietro il portatile per scrivere, con la speranza di cogliere il segnale favorevole per navigare su internet. Per la maggiore sostavamo sotto la pergola di canniccio, guardando il mare, riempita dagli echi delle risate, dagli accenti afoni delle nostre voci rotte, dal fumo delle sigarette, dall'odore acre della cannabis fumata che Antonio, per precauzione, conservava nei calzini. Il Bar Corona era casa nostra, a qualunque ora del giorno potevano accedervi, invitando Alvaro, il folle proprietario, a versarci nel bicchiere un drink per brindare ad un altro giorno inutile, uguale a quello precedente e, probabilmente, a quello successivo. Sembrava non esserci più speranza, almeno per noi, non so un'ancora di salvezza. La terra era diventata per noi qualcosa di alieno, di sconosciuto, un labirinto consueto di bestemmie, di fumo, di speranze interrotte da bevute infinite di birra, liquori e caffè senza zucchero. Dovevamo cercare un'alternativa, ma non sapevamo cosa fare, dove cercarla, come risolvere il meccanismo dell'esistenza che, come una giostra circolare, ci escludeva ogni qual volta faceva giorno. Almeno, pensandoci, Ernesto lavorava, così Antonio, Clara, che si prostituiva, ma io? Io cosa facevo? Lo scrittore, vale a dire lavoravo sette giorni su sette, cercando di innamorarmi di storie che avrei trascritto senza pudore, o senza la minima esitazione. Come nel caso del film La Città delle finte donne, che non ebbi ispirazione nel finirlo e, privo d'epilogo, giaceva nel dimenticatoio di qualche angolo del mio appartamento, magari tra le fila di qualche superalcolico di scorta.
Il film non aveva avuto un epilogo, ma la nostra esistenza poteva mai averlo? Tante volte ci pensavo e nella maggior parte dei casi non ne vedevo una fine, il calare del sipario, la scritta in caratteri cubitali "the and". Tutti noi eravamo imprigionati nelle nostre esistenze sinistre, tra le mura sottili e insidiose dell'apatia, nel labirinto infinito del quale non sapevamo vederne la fine. Il telefono squillò di nuovo: Pronto! Ciao Dario, sono sempre io Antony. Senti dicevamo con Clara e gli altri se questa sera invece di andare a casa di Ernesto ci vediamo alla nave del disastro. Cosa ne pensi, ti va? Come alla nave! Guarda che per quanto ne sappia è severamente vietato, ne hanno parlato tutti i giornali. La carcassa sembra che sprigioni del veleno dai container. Sì lo so, ma si va per fare qualcosa di diverso. Magari ci si disinibisce un po'. Sicuramente facciamo qualcosa di nuovo. Ma Ernesto, non voglio che rimanga offeso… Poi andrà avvertito. Ernesto sa tutto, l'ho chiamato prima al cellulare, durante l'ora pranzo: è d'accordo. Anzi, persino gli ospiti da Arezzo vengano. Dai, sarà una serata particolare. Allora alle dieci al Bar Corona? Sì alle dieci, come sempre, stesso posto.
Come sempre ero arrivato in anticipo nel luogo dell'appuntamento. Un vento gelido spazzava il piazzale antistante al bar e i timidi lampioni sembravano screpolare l'ombra della notte con riflessi giallastri. Per ammazzare il tempo mi misi a fumare appoggiandomi alla colonna del lampione guardando il mare invisibile, cancellato dal buio e tormentato dal vento. Alla fine mi decisi ad entrare nel bar e ordinai l'ennesima birra. Finalmente arrivò Ernesto e a seguire Clara Antony e le altre. Gli ospiti di Arezzo, due fidanzati con l'hobby delle carte, tremavamo dal freddo, silenziosi nei loro paltò, quasi timidi, pigri nel presentarsi. Dopo una seconda birra, un amaro per Ernesto, un drink per Antony e uno per Clara, decidemmo di andare. La passerella che attraversava la spiaggia era ricoperta di sabbia e la notte nascondeva le dune, confondeva l'odore della salsedine con i nostri ardori, spezzava l'orizzonte del mare che si percepiva ma non si vedeva. Alle nostre spalle la città era un fiume di luci, di riflessi che ferivano i nostri occhi donandoci una felicità insolita. A fine del percorso arrivammo davanti alla nave. Del relitto se ne vedeva soltanto l'ombra che, come un cerchio concentrico, formava una gran campana buia sul buio della notte. La nave era immensa, simile ad un palazzo di cinque piani. Sembrava dormire sul ricordo di quella che fu, sulle rotte dimenticate, un labirinto di legno dove solo i pirati, reduci da millenari viaggi, potevano abitarla sbarcandoci il lunario. Ernesto prima di salire a bordo volle fare una perlustrazione esterna, osservare da vicino la prua schiacciata, le tavole delle pareti divelte, gli oblò sfondati. Fu in quel momento che ci accorgemmo di non essere i soli ad aver approfittato dell'occasione. Voci, risate, gemiti fuoriuscivano dall'interno messo a soqquadro dalla collisione assassina. Quando salimmo a bordo dalla passerella principale non ci saremmo mai aspettati di trovarci in un circo. Mezza città si era trasferita sul relitto senza la minima esitazione, senza il minimo timore per le sostanze chimiche che la nave sprigionava. Alcuni ragazzi, contenti di fare una cosa diversa dal solito, felici di avere un proprio spazio, s'improvvisavano funamboli, altri, vestiti da clown, girovagavano per la nave su bicicli sbilenchi, altri ancora, senza pudore, si stavano amando tra le macerie. Alcune persone avevano pensato bene di portarsi dietro le cineprese, così, sgombri dalla fatiche quotidiane, improvvisavano scene erotiche, per non dire pornografiche, filmate con la presunzione da registi di fama. Noi, come si era fissato dal mattino, giocammo a poker per quasi tutta la notte, poi si proseguì l'assedio con violenza. Fu in quella notte che riuscii a scoparmi Clelia. Fino allora avvertivo repulsione nei suoi confronti. Sì certo, la volevo bene, ma non in senso carnale. Nei fui folgorato. A farci compagnia venne Ernesto, desideroso di avere un rapporto a tre. Facemmo l'amore, ricordo sino all'alba, sino a quando i primi raggi di sole non ci sorpresero in quel tugurio dimenticato. I riflessi che penetravano dalle ferite della nave lambivano i nostri visi pallidi, esitanti persino di guardarsi allo specchio. Guardandoci in faccia, dopo un risveglio traumatico, dopo un sonno comatoso, non restava che contarci le rughe del disprezzo per quello che avevamo fatto. Ernesto ed io eravamo ancora nudi, mentre Clara aveva avuto il buon gusto, non so forse il pudore, di coprirsi con una tavola divelta. Al nostro risveglio, come la notte precedente, non eravamo soli. Il circo della sera prima adesso era in pausa, i circensi improvvisati, dai visi bianchi e le cosce aperte, dormivano poco lungi da noi. Antony nel contempo era andato al Bar Corona a prenderci la colazione e quando arrivò al nostro capezzale l'odore del caffè si mescolò con l'acre profumo della cannabis, dei corpi dormienti, interrompendo gli ultimi frammenti di un sogno recente. Di un ambito sogno tramontato prima di giungere ad un epilogo. Il tempo passava, dal nostro risveglio erano passate circa tre ore e tutto riprese a vivere come in precedenza. Ricomparvero i funamboli, i Clown, gli amanti, i registi in erba, con l'aggiunta delle cartomanti, di architetti falliti, poeti sconosciuti, muratori, zingare che leggevano mani, insomma un intera città. Ci venne a trovare persino il proprietario del Bar Corona. Se Maometto non va dalla montagna, la montagna va da Maometto, ci disse, con in faccia stampato un sorriso che la diceva lunga. Sulla nave conobbi persino Casanova, Leonardo Da Vinci, Lisa Gherardini, la Gioconda, nuda tra le macerie a farsi ritrarre dal mitico toscano. Infine conobbi Michelangelo che, non so perché, sentita la notizia si era messo in testa di fare della nave una cappella Sistina in miniatura. Per poi non parlare di Melville, ispirato a scrivere un nuovo romanzo, intitolato, da quanto potevo capire, La collisione: cronaca delle disavventure di mille balene bianche. Melville, mi scusi, so di non essere alla sua altezza ma non potrebbe intitolarlo soqquadro. Lo sa che lei è impertinente, come si permette di interrompermi mentre scrivo? Al limite, tanto per farla felice, potrei intitolarlo Amen, in senso ironico s'intende, tanto per sdrammatizzare. No, io volevo solo… Lei… Ma mi faccia il piacere, vada, vada dai suoi amici. Ernesto, che nel frattempo era sceso dall'edicolante, arrivò con una novità che ci riguardava. Il giornalista dell'articolo, a seguito di una fuga di notizie, riportava a pieno titolo l'assurdità di quest'assedio. Ma era chiaro che non ce l'avessero con noi, ma con coloro che avevano lasciata incustodita la nave per diversi giorni, che non avevano portato via i container contenenti veleno, che, non rendendosi conto della gravità, lasciarono incuranti il relitto sulla spiaggia.

E' un vero e proprio assedio, quello messo in atto da alcuni ragazzi della nota cittadina costiera a bordo della nave, vittima del disastroso incidente. Secondo quanto accaduto, i ragazzi, perlopiù noti in città, hanno preso d'assalto il relitto da un paio di giorni, sfidando la sorte. La nave, arenata sulla spiaggia dopo la collisione, rimane un costante pericolo per l'ambiente. Al momento dell'incidente, infatti, oltre alle persone, l'imbarcazione trasportava container contenenti sostanze chimiche, altamente intossicanti. Queste sostanze possono, infatti, procurare serie patologie non solo alla pelle, ma soprattutto all'apparato respiratorio e allo stato generale della salute. Purtroppo, il mancato trasporto del relitto nella rimessa dovuta da parte delle amministrazioni competenti mette a serio rischio la natura della costa versigliese. La nave, o ciò che di essa rimane, rappresenta un serio rischio per l'impatto ambientale. Tornando ai ragazzi, questo articolo vuole essere un avvertimento per la loro salute. I giovani che in questi giorni si trovano a bordo dell'imbarcazione, oltre a mettere in serio rischio la propria incolumità fisica, rischiano di mettere a repentaglio la salute degli altri cittadini. Il rischio di un contagio è alto. Detto questo, non si riesce ancora a comprendere come mai le forze di competenza non abbiano ancora provveduto alla rimozione del relitto. Ci auguriamo che dopo la pubblicazione di questo articolo qualcosa di positivo accada. Ci vorrebbe, infatti, una svolta radicale per dimenticare il triste accaduto e cercare, con la buona volontà, di rimediare al problema.

La situazione stava precipitando in un baratro del quale non avremmo visto la fine. Oltre al circo, ai giochi squallidi, ai filmini porno, adesso c'era chi faceva sciacallaggio. Molte persone, probabilmente non del posto, si precipitarono a rubare ciò che rimaneva dopo l'incidente. Molti di loro si portarono via un sacco di cose, deturparono l'intero relitto dalla prua alla poppa sino a sovraccoperta senza la minima esitazione. Nel contempo noi continuavamo a giocare a poker, a dialogare sui ricordi, versandoci birra nei calici col pretesto di brindare all'assurdo accaduto. Alcuni si portarono via persino le scialuppe, caricandole sui cassoni dei furgoni. Il regista in erba, che proseguiva il proprio lavoro indisturbato, aveva preso il relitto per un mini teatro di posa. Ora immagini girate e montate con tutta fretta, di donne e uomini in una guerra di sesso, in un intreccio di corpi, erano proiettate sulle pareti ferite della nave. Tutto questo era assurdo, il bello e che lo sapevamo ma non ci riusciva venirne a capo. Oramai, sia io che Ernesto, Antonio, Clara, gli ospiti di Arezzo, eravamo in balia dell'assurdo, di un assedio senza epilogo. L'unica cosa positiva, o forse negativa, e che là sopra trovai di nuovo ispirazione. Dopo aver passato una notte a fare sesso con Clara ed Ernesto iniziai a scrivere un romanzetto. La sera dell'assedio mi ero portato dietro il mio portatile, come sempre d'altronde, e così avevo cominciato a scrivere una decina di pagine. La storia era di un regista teatrale senza più ispirazione, il quale dopo una notte d'amore con una prostituta di nome Antonella inizia a costruirsi una serie di scene mentali, dialogate, che riuscirà a mettere in scena su di una nave abbandonata. Perlopiù il romanzo era incentrato sui monologhi di costui e su quelli di Antonella, grazie ai quali la storia prendeva corpo sino a raggiungere un finale di grande maestria. La scena ultima prevedeva, infatti, il suicidio del maestro che, stanco di vivere, decideva di darsi alla morte. La trama era buona tutto sommato, se non fosse stato per Ernesto che mi consiglio, forse ispirato dal cineasta coinquilino, di riprendere in mano il mio film. Debbo dire che non aveva torto. La città delle false donne poteva finire proprio su questa nave, magari con un epilogo a sorpresa. Tutto era perfetto. I clown c'erano, le prostitute pure, i trans non mancavano mai all'appello, la nave l'avevamo, quindi potevamo iniziare. Visto che il cineasta in erba era reduce dalle riprese chiesi se mi poteva imprestare la cinepresa. Iniziai, esitando forse sul finale. La fortuna mi era corsa in aiuto. Al momento del primo ciak, uno dei ragazzi circensi iniziò a sentirsi male. Svenivano, cadevano a terra rapiti da un sonno profondo. Prima di sera molte persone stavano male, alcune addirittura sembravano morte. Io mi divertivo a filmare le immagini, perché mai mi era capitata una cosa del genere. Nel frattempo, come il protagonista del romanzo che avevo improntato, uno dei ragazzi tentò di suicidarsi, gettandosi in mare dal ponte della nave. Un suicidio annunciato che, però, invece di decretarne la morte gli procurò un timido fastidio: la respirazione bocca a bocca di una delle ragazze del porno. Accidenti! Avevo le carte in regola per completare il film eppure qualcosa mancava. Ma non tardò ad arrivare, l'epilogo sperato. Il ragazzo di prima adesso si era suicidato veramente e dietro di lui anche una ragazza dei circensi. Tutti gli altri stavano male, probabilmente intossicati dalle sostanze chimiche dei container. Quando giunsero le ambulanze a soccorrere gli sventurati ragazzi, oramai il film lo avevo completato. Coloro che si erano intossicati furono portati in ospedale, ma molti di loro al cimitero. A film finito, dopo tutti i poker vinti per mano di Antonimo, decidemmo anche noi di tornarsene in città, di scendere dal relitto e riprendere la vita quotidiana là dove l'avevamo interrotta. Adesso, il dramma era di prendere coscienza di quello che avevamo commesso, di recuperare in noi la coscienza smarrita. Capimmo così che questa avventura oltre ad essere il finale del mio film, finalmente compiuto, oltre ad essere stata un passatempo piacevole, un assedio giocoso, era la fine dei nostri incontri. Eravamo tutti sulla soglia dei quarant'anni e ci comportavamo come dei ragazzini. Sul lungomare, guardando da lontano la nave derelitta, decidemmo di mettere ordine alle nostre esistenze. Antonio prese occasione, dietro il suo trasferimento didattico, di trasferirsi a Moncalieri, Ernesto convenne nel dire di mettersi a fare una vita più seria, da quarantenne, Clara disse che voleva continuare a fare la prostituta ma si è suicidata dopo un paio di mesi dal nostro congedo, Ghigo lo hanno trovato morte per overdose d'eroina dietro la porta di casa. Dicono che il corpo fosse irriconoscibile, gonfio, pallido, contratto e dalle braccia piene di lividi. Lo trovarono così, muto come silenziosa fu la sua esistenza, con al braccio sinistro il laccio e la siringa a terra. Nel frattempo gli ospiti di Arezzo sono tornati a casa loro e li ho persi di vista. Al sottoscritto hanno pubblicato il primo romanzo e adesso gli hanno commissionato un nuovo film, visto che La città delle finte donne è in concorso a Venezia. La nave, o quello che di essa rimaneva, è stata rimossa come si voleva dimostrare. Il Bar Corona ha chiuso i battenti. Il proprietario adesso e in pensione e vive in un trullo nella Puglia salentina, tra i ricordi dell'infanzia che fu e tra la tranquillità dei giorni tutti uguali. Giovedì della prossima settimana ho un appuntamento con un produttore giapponese: del mio primo romanzo vorrebbero trarci un film. Per adesso vivo così, da ricco direi, avendo venduto più di tremilioni di copie. Mi sono comprato una villa a Hollyvood, con tanto di piscina, ma per la maggiore vivo in Toscana, lungo le mie coste. Della nave e di quell'avventura mi è rimasto solo un flebile ricordo, così delle facce, delle persone, che adesso, quasi per incanto, annegano poeticamente nel mare della memoria.

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