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Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi poetici inediti,
in lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai,
Dario De Lucia,
Amanda Nebiolo
Interviste
Intervista a Dario De
Lucia
a cura di Massimo
Acciai
Il Simposio di Poeti: Intervista a Giovanna
Salerno
a cura di Massimo
Acciai
Recensioni
Saggi
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Esteriormente l'irritazione di
Vidar si limitò ad una breve contrattura della
mascella nel momento in cui, cercando nella
valigetta da viaggio, si ricordò improvvisamente di
aver dimenticato il libro a casa, sulla scrivania,
nella fretta della partenza. Imprecare non faceva
parte del suo carattere nordico, soprattutto
imprecare in pubblico e ad alta voce, ma quella
sbadataggine poteva rovinare la giornata. Era molto,
molto seccante. Si accese nervosamente una
sigaretta.
Rimase perplesso qualche minuto, seduto su una
panchina vicino al binario, indeciso sul da farsi.
Non era una decisione facile; le alternative erano
entrambe spiacevoli. Da una parte c'era un viaggio
di dieci ore, senza un paesaggio da vedere dal
finestrino visto che si trattava di viaggiare di
notte, senza un compagno con cui far conversazione e
senza un libro da leggere. Dall'altra parte c'era la
capsula Mavisan.
Vidar apparteneva a quella piccola minoranza di
persone che ancora nutrivano sospetti verso le
capsule Mavisan. Eppure l'ibernazione era divenuta
negli ultimi decenni così comune e banale che ormai
la gente vi ricorreva per evitare la più piccola
attesa. Sembravano lontanissimi i tempi in cui era
una tecnica complessa, costosa e rischiosa a cui
ricorrevano malati terminali per essere poi
risvegliati decenni o secoli dopo, quando la scienza
avrebbe avuto gli strumenti per curarli. Quei
poveretti non avrebbero in realtà mai più rivisto la
luce del sole; all'epoca la tecnica era troppo
rozza, ma la scienza era in effetti andata avanti ed
il campo dell'ibernazione aveva avuto sviluppi
straordinari da quando era stata inventata il metodo
criogenico Mavisan. Le prime capsule Mavisan erano
state istallate negli ospedali, in seguito sui voli
intercontinentali e su navi a lunga percorrenza. Sui
treni erano arrivate qualche anno dopo ed era stato
subito un boom di richieste. C'era persino chi
prenotava una capsula anche per un viaggio da Dale a
Voss; un viaggio da meno di venti minuti!
Vidar non riusciva a capire come la gente avesse
vinto così presto l'iniziale diffidenza verso la
criogenia. Si trattava pur sempre di portare la
temperatura corporea sotto zero (quanti gradi sotto
zero non aveva mai desiderato saperlo) e rallentare
il metabolismo fin quasi ad annullarlo. Qualcosa
come un respiro ogni ora. Era qualcosa di troppo
simile alla morte per non provare un senso di
claustrofobia nel distendersi in una di quelle
capsule d'acciaio e affidarsi completamente a
macchine e tecnici.
Pazienza. Prima o poi avrebbe dovuto comunque farci
l'abitudine, si disse Vidar rimuginandoci sopra. Le
carrozze riservate ai "viaggiatori svegli" erano
state ridotte ulteriormente con l'inizio dell'anno,
ed era facile prevedere che sarebbero un giorno
scomparse del tutto, o almeno i treni con tali
carrozze si sarebbero fatti molto rari. Dopo tutto
da quando le capsule erano state montate nelle
carrozze speciali non era accaduto neanche un
incidente, a parte... ma anche quello era stato di
poco conto e statisticamente irrilevante. Le capsule
- assicuravano gli esperti di criogenia - erano
praticamente indistruttibili, in grado di sostentare
una persona per un tempo lunghissimo, valutabile
nell'ordine di secoli, anche se naturalmente nessuno
aveva sperimentato una tale possibilità, tranne - ma
si trattava più di leggenda che di realtà…
Il controllore fischiò, riportando Vidar alla
realtà. Doveva assolutamente prendere quel treno,
non ce n'erano altri fino alla mattina successiva, e
allora avrebbe fatto tardi all'appuntamento con
Sonja. D'istinto prese il portafoglio dalla tasca e
ne tirò fuori una foto sbertucciata, risalente a
qualche anno prima. Sonja era bellissima, con i suoi
occhi scuri e dolci ed il sorriso luminoso. Al
pensiero di Sonja parte dell'irritazione si dissolse
in un sorriso appena abbozzato. Comunque di passare
la notte in stazione non se ne parlava nemmeno.
Maledisse ancora la sua sbadataggine e si diresse
deciso verso la carrozza d'ibernazione più vicina.
Riprese conoscenza lentamente. I tecnici
risvegliavano i passeggeri qualche minuto prima
dell'arrivo in stazione. Un individuo medio si
riprendeva dagli effetti dell'ibernazione nel giro
di un minuto al massimo, sveglio e pimpante come
nessun sonno naturale poteva ottenere. Molti
ricorrevano alle capsule anche per questo motivo.
Un'indagine aveva accertato addirittura che più del
60 per cento degli utenti soffriva d'insonnia ed
aveva trovato una soluzione ideale al problema.
Questo faceva prevedere che presto le capsule
Mavisan sarebbero entrate nelle case private dei
comuni cittadini. In alcune, soprattutto di
personaggi famosi o comunque benestanti, c'erano già
da tempo.
Vidar non era perciò del tutto sicuro che quell'intorpidimento
fosse normale. Un minuto era passato di sicuro e
doveva essere già sveglissimo, invece indugiava in
quello stato simile al dormiveglia, come un alunno
svogliato al mattino. Era strano.
Aprì infine gli occhi e fu abbagliato da una luce
forte che non si aspettava. Le carrozze Mavisan
erano tenute in una riposante penombra per agevolare
il risveglio, lo sapevano tutti. Invece un sole
impietoso gli prendeva a schiaffi i bulbi oculari,
così violentemente che d'istinto li richiuse e cercò
di riaprirli piano piano. Riuscì così a distinguere
qualche particolare dell'ambiente in cui si trovava.
Quel che vide non gli piacque per niente.
Un'arma, una specie di mitra, era puntato contro la
sua faccia.
Dalla parte del grilletto c'era un uomo dalla pelle
scura, bruciata dal sole. Uno strano cappello, che
aveva qualcosa di militaresco, era calcato sulla
testa calva. Gli occhiali scuri che portava gli
impedirono di decifrare le sue intenzioni dallo
sguardo, ma i tratti del viso erano duri e non
promettevano nulla di buono.
"Chi è lei?" domandò infine Vidar, con un filo di
voce.
L'altro si limitò a fissarlo, senza dire parola.
"Dove mi trovo?"
Nessuna risposta.
"Insomma…" Vidar provò ad alzarsi, ma dovette
ritornare giù per non andare a sbattere contro la
canna del mitra che il tizio continuava a puntargli
alla testa.
Era una situazione molto, molto seccante.
"Va bene, in che modo posso aiutarla?"
L'altro corrugò la fronte in modo interrogativo. Era
chiaro, come aveva fatto a non pensarci prima! Non
capiva la sua lingua. Doveva essere uno straniero.
Provò a ripetere le domande in inglese. Quello ebbe
un moto di rabbia e gli schiacciò la punta del mitra
contro la fronte, urlando una frase in una lingua
sconosciuta.
"Ma insomma, come posso…"
Una mano robusta gli afferrò un braccio e lo sollevò
quasi di peso, mostrando una forza notevole. Quando
si trovò faccia a faccia il tizio armato sentì un
odore sgradevole di sudore e sporcizia che gli diede
la nausea. Adesso cominciava ad essere davvero
preoccupato.
Il tizio urlò qualcosa nella sua lingua spingendolo
in malo modo. Vidar ipotizzò che il poco cortese
invito, comprensibile anche senza parole, era in
qualche lingua asiatica e che avrebbe fatto meglio
ad ubbidire. Non sapeva ancora se aveva a che fare
con un pazzo o un criminale, o entrambe le cose, ma
certo quel mitra aveva tutta l'aria di essere
carico.
Attorno a lui c'era una specie di villaggio di poche
capanne. Il cielo era azzurro, il sole alto e
caldissimo. L'orizzonte era chiuso da una foresta da
un lato e da una montagna imponente dall'altro. La
foresta - o, più probabilmente, la giungla -
iniziava ai margini del villaggio e aveva un aspetto
decisamente tropicale, così come il clima. Si
accorse distrattamente del sudore che scendeva
abbondante dalla fronte e dal collo sulla schiena,
inzuppandogli gli abiti, adatti a climi ben più
freddi. I movimenti erano impacciati, si sentiva
decisamente fuori posto, pensò che vista dal di
fuori doveva essere una scenetta alquanto buffa.
Il tipo lo spinse di nuovo di nuovo, facendolo
cadere disteso per terra. Questo era troppo anche
per un tipo calmo e razionale come lui. In quel modo
non riusciva a concentrarsi su nulla, tanto meno sul
modo di scappare. Non c'era letteralmente il tempo
di riflettere.
Si rialzò con calma, fingendo di essersi fatto più
male di quello che era in realtà. Il suo carceriere
gli tirò un calcio potente sulle costole,
lasciandolo senza fiato per qualche attimo. Era
frastornato ma gli parve di udire una risata.
"Basta, perdio!" Riuscì infine a dire. Avrebbe
voluto essere un grido, ma gli uscì appena il fiato
per essere udito, ma non capito a causa della
lingua.
Udì uno sparo.
Per un attimo pensò che il tizio avesse perso
definitivamente la pazienza con cui e che avesse
terminato quel gioco crudele. Invece si sorprese di
trovarsi ancora tutto intero, sdraiato per terra, a
scrutare il suo carceriere che lo fissava con occhi
spalancati e vuoti, la bocca aperta ed un foro di
proiettile nel centro della fronte.
Quello che avvenne negli attimi immediatamente
successivi fu un ricordo confuso, in cui predominava
una frenesia ed un odore penetrante di sangue,
sudore e polvere da sparo. La mente decise che era
troppo per lei e lasciò tutto in mano all'istinto e
al corpo. Vidar si rotolò lontano dal cadavere, si
rialzò con sorprendente agilità - grazie al molto
tempo libero dedicato allo sport - e si mise a
correre.
Intorno a lui forme indistinte e caotiche correvano
in tutte le direzioni. Spari. Urla. Ordini. Nel giro
di un attimo si era scatenata una vera e propria
battaglia. Un gruppo di uomini, sicuramente soldati,
era piombato sul villaggio ed aveva iniziato un
massacro. Lui si trovava esattamente al centro, pur
essendone del tutto estraneo. Ma le pallottole che
volavano da tutte le parti non sembravano voler fare
questo tipo di distinzioni.
Corse, corse a perdifiato, stupendosi di quanto
lontano potevano portarlo i muscoli delle gambe,
fino a quel momento messe alla prova solo su piste
da sci e in jogging mattutini nel parco di Sogndal.
Lo sguardo diritto in avanti, alla ricerca disperata
di un riparo. Nessuno pareva badare a lui in
particolare, ma la sensazione di pericolo mortale
era addosso in ogni attimo. Tutto si stava svolgendo
nel giro di uno o due minuti al massimo, ma il tempo
si era dilatato in modo impressionante. Vedeva
uomini e donne cadere per terra, schizzi di sangue e
bombe che facevano saltare capanne e bidoni di
carburante, proprio come in un film d'azione. Il
rumore era assordante.
Continuò a correre, con l'impressione di aver
evitato almeno un paio di volte una pallottola per
pochi millimetri. Cominciò a rallentare. Il cuore
batteva all'impazzata. Si trovava finalmente
abbastanza lontano dalla battaglia da potersi
fermare un po' a riflettere e guardarsi intorno. I
rumori giungevano lontani. Si trovava nella giungla.
Pensò che la sua situazione non era poi migliorata
di molto.
Camminò a lungo, cercando di farsi largo
nell'intrigo di una vegetazione impressionante, che
non aveva mai visto fino ad allora. Caldo ed umidità
erano insopportabili. Si liberò dei vestiti più
pesanti, nascondendoli come meglio poteva tra le
felci giganti. Si sentiva debilitato fino allo
sfinimento. Ogni passo era una tortura. Aveva
un'idea molto vaga dei pericoli di camminare in una
foresta tropicale, molto probabilmente era stato
molto fortunato - nella sfortuna - ad essere ancora
vivo.
Per un po' di tempo andò tutto abbastanza bene. Per
tenere la mente occupata, quel tanto che bastava per
non inciampare in qualche radice, cominciò a pensare
a Sonja. Quel pensiero era abbastanza lontano dai
suoi guai attuali, ma dopo un po' dovette pensare a
qualcos'altro; l'idea che lei lo stesse aspettando a
Lom, mentre lui si trovava probabilmente lontano
migliaia di chilometri, era piuttosto deprimente.
Chissà cosa avrebbe pensato… Certo, sarebbe stata
preoccupata, ma alla fine le sarebbe venuto il
sospetto che lui l'avesse abbandonata. La conosceva
bene. Come spiegarle che aveva preso il treno e che
si era risvegliato nella giungla? Pensò ai suoi
occhi scuri che sapevano gelare un uomo senza una
sola parola. Penso che, quando fosse riuscito a
tornare a casa, la prima cosa che avrebbe fatto
sarebbe stata…
Un rumore improvviso e un tuffo al cuore. Rumore di
passi. La mente riprese a tremare. Le gambe si
bloccarono. Lo stavano seguendo; amici o nemici?
Fuggire o nascondersi? Doveva decidere in fretta. Si
distese a terra, cercando di rimanere immobile. Non
riusciva a capire da dove venivano i passi. Era
troppo spaventato. Il cuore batteva furioso.
Aspettò.
I passi si stavano allontanando. Un'idea forse folle
gli attraversò la mente. Forse era il caso di
seguirli; almeno sarebbe tornato alla civiltà. Non
si sentiva più tanto sicuro in mezzo a quella
vegetazione spaventosa, tanto più quando sarebbe
calata la sera e poi la notte. L'idea di passare la
notte là fuori era terrificante. Avrebbe potuto
seguire gli uomini a distanza di sicurezza, magari
poi non erano gli stessi che avevano sparato…
Si fece coraggio e si rialzò. Molto lentamente. I
passi adesso erano lontani, ma curiosamente era più
facile capire la direzione. Rischiava però di
perderli. Quelli erano abituati a muoversi nella
foresta, certamente più di lui. Forse stava facendo
una sciocchezza…
Si fermò.
Li aveva persi.
Si era perso.
Di nuovo.
La sera adesso pareva vicina. Già la luce che
filtrava tra le fronde era cambiata; più sfumata,
dorata. Quante ore di luce gli restavano? Difficile
dirlo. L'orologio era del tutto inutile. Il caldo,
quello, era però sempre opprimente. Aveva un
disperato bisogno di bere. Non poteva andare avanti
così, se non lo facevano fuori le pallottole ci
avrebbe pensato il clima a stenderlo.
Oppure ci avrebbe pensato la tigre che era comparsa
improvvisamente davanti a lui.
Si accorse del pericolo quando si trovava già
vicinissima. Era stata silenziosa, proprio come ci
si aspetta da un felino. Il primo pensiero che gli
passò per la testa fu che quel felino aveva una
testa enorme, esagerata. Nei documentari televisivi
sulla giungla non si aveva una reale percezione
delle dimensioni di una tigre, ne dell'odore forte
che emanava. Tutto questo però Vidar lo avrebbe
pensato più tardi; in quel momento non c'era posto
per alcun pensiero al di fuori della fuga.
Corse con tutte le sue forze, per quanto poteva
permettergli la vegetazione. Sapeva di non avere
possibilità, glielo diceva il suo istinto più
antico, quello stesso istinto sopravvissuto ad
analoghe corse in ambienti simili da parte dei suoi
antenati preistorici. Ma lui era un uomo del XXI
secolo e non una qualche specie di primate vissuta
milioni di anni prima. Questo faceva la sua
differenza.
Anche questo pensiero sarebbe giunto più tardi. In
quel momento c'era solo la corsa e la paura. Tutto
sembrò svolgersi nell'arco di alcuni minuti, ma
doveva sicuramente essersi trattato di secondi
perché altrimenti sarebbe stato raggiunto ed ucciso
dalla belva, forse più umanamente degli uomini che
aveva lasciato al villaggio ma di certo non meno
efficacemente.
Invece precipitò.
Sul momento si sentì soltanto cadere, senza capire
dove e perché. Il terreno mancò letteralmente sotto
i piedi. Il volo sembrò non finire mai. Il buio lo
inghiottì. L'urlo si perse in un eco di caverna.
Urtò con la schiena e con la gamba destra contro
qualcosa di morbido, eppure un dolore atroce lo
costrinse ad urlare di nuovo. Chiuse gli occhi con
forza e non li riaprì che quando il dolore cominciò
ad attenuarsi. Riaprendoli a poco a poco notò in
alto solo una striscia di luce in una vastità
immensa di buio. Qualcosa nella sua mente gli diceva
che quella striscia di luce era molto lontana, e che
questo non era un bene. Si sentiva confuso e
dolorante, tanto da non riuscire a muovere nulla.
Una miriade di pensieri incoerenti gli attraversò la
mente.
Chiuse di nuovo gli occhi e li riaprì rapidamente.
La vista si stava abituando a quell'oscurità; la
poca luce che arrivava dalla fessura, che doveva
pure essere abbastanza grande da ingoiare un uomo e
una tigre, era appena sufficiente per ricostruire
l'accaduto. Doveva essere precipitato in una enorme
caverna insieme alla tigre, in seguito ad un
cedimento improvviso del terreno, e per un caso
incredibile era caduto esattamente sul corpo della
tigre, la quale aveva toccato terra un attimo prima
di lui rimanendo uccisa sul colpo. L'unico motivo
per cui lui era ancora vivo lo doveva probabilmente
al corpaccio del felino che aveva attutito il colpo.
Cercò di capire se era tutto intero. Iniziò a
muovere dapprima le dita di una mano. Rispondevano
bene. Provò con quelle dei piedi. Aveva qualche
difficoltà con quelle del piede destro. Per
l'esattezza, non riusciva a sentirle. Era come se
non esistessero più. Provò quindi a muovere il
braccio destro. Faceva male a muoverlo, ma si
muoveva. Con quello sinistro andava un po' meglio.
Le gambe invece non volevano saperne. Doveva
essersele rotte entrambe. Un gran brutto guaio.
Vidar si vide perduto, cadavere. Per un attimo
desiderò esserlo. Essere divorato da una tigre nella
giungla non doveva essere peggio che morire di fame
e sete, da solo, nel buio di una caverna.
Rimpiangeva persino di non essersi beccato una
pallottola al villaggio durante la sparatoria.
Invece il buio freddo e umido lo costringeva a
riflettere sul suo peggiore incubo: la
claustrofobia.
Era impossibile misurare lo scorrere del tempo.
Avrebbe potuto guardare l'orologio, ma non ne aveva
ne la voglia ne le forze. Intanto la luce che
scendeva dalla crepa in alto diminuiva rapidamente.
Stava scendendo la notte. Il pensiero di passare una
notte là sotto, al buio assoluto, rischiava di farlo
impazzire. Già mille rumori, probabilmente
immaginati, gli affollavano la mente.
Ad un certo momento ebbe la percezione di qualcosa
che stava strisciando verso di lui.
Un brivido corse lungo la schiena. Si scoprì
stavolta incapace di urlare, come se avesse esaurito
l'aria nei polmoni. Rimase immobile, in ascolto. Non
c'era nessun rumore, doveva esserselo immaginato.
Quel terrore improvviso servì almeno a scuoterlo un
po'. Riuscì a tirarsi un po' su e a mettersi seduto.
Ormai la luce era davvero poca, insufficiente quasi
per guardarsi le dita. Si frugò in tasca. Il
contatto delle dita con l'accendino e il pacchetto
di sigarette gli restituì un po' di sicurezza. La
fiammella gettò un alone spettrale tutto attorno. Si
accese una sigaretta e si guardò intorno, muovendosi
con estrema lentezza. C'era qualche ramo spezzato
vicino a lui, avrebbe potuto accendere un piccolo
falò. Ne raccolse un po', poi tirò fuori alcune
inutili banconote dal portafoglio e in qualche
minuto riuscì ad ottenere un rassicurante e caldo
bagliore. Gettò distrattamente un'occhiata al corpo
enorme ed inerte della tigre, accanto a lui. Avrebbe
avuto anche qualcosa da mangiare se riusciva a
procurarsi qualcosa di tagliente; un bel sasso
affilato per esempio. Era ripugnante tagliare quella
carne sanguinolenta e metterla sul fuoco per
arrostirla un po', ma lo stomaco non poteva
aspettare oltre. In fondo il sapore non era così
malvagio, anche se la cottura lasciava a desiderare.
Calmata la pancia e recuperate un po' di forze,
scoprì di riuscire a trascinarsi per qualche metro,
pur con molta pena. Sentiva freddo e brividi in
tutto il corpo. Doveva avere la febbre.
C'erano altri rametti sparsi attorno, e doveva
esserci altre cose combustibili più in là. Tolse un
ramo dal fuoco e, tenendolo a mo' di torcia, si
avventurò nell'oscurità.
Ad un certo punto la urtò con un gomito. Si girò di
scatto. Guardò l'oggetto, luccicante sotto la luce
del fuoco, con incredulità.
Era una capsula Mavisan.
Esaminò con cura la capsula. Era un modello
piuttosto vecchio, uno dei primi utilizzati negli
ospedali più di un ventennio prima. Vidar non era un
esperto, ma sapeva che quegli affari erano costruiti
per durare praticamente in eterno. Avevano un
consumo di energia irrilevante; una batteria alla
carica massima garantiva un funzionamento per almeno
un paio di secoli.
Aveva sentito parlare di alcuni strani eremiti
moderni che si ritiravano in luoghi impervi,
estremi, portandosi dietro capsule Mavisan. Oramai -
pensò con ironia - neanche gli asceti avevano più la
pazienza di aspettare da svegli l'Illuminazione.
Questa considerazione lo fece sorridere. Queste
persone provenivano soprattutto dal ricco Occidente
e si concedevano lunghissimi periodi di "assenza dal
mondo", passati in stato criogenico, per
risvegliarsi in un qualche futuro con la speranza di
trovare un mondo migliore o qualcosa del genere.
Alcuni di loro sostenevano che era possibile trovare
in un sonno di ghiaccio quella calma interiore
irraggiungibile in qualsiasi altro stato meno
definitivo della morte. Non c'era nulla di
scientifico e Vidar aveva sempre pensato che fosse
un po' folle tutto ciò, che si trattasse forse di
una delle tante leggende metropolitane. Pareva
invece che si fosse imbattuto in una di quelle
"leggende metropolitane". Non c'era altra
spiegazione logica per la presenza di una capsula
funzionante in quel luogo sperduto.
La capsula sembrava infatti in buono stato. Era
chiusa. Appena sfiorò il display che si trovava sul
lato destro, subito si illuminò il quadro di
controllo. Il coperchio si sollevò lentamente, con
un sibilo familiare. Vidar accese un altro legno per
avere più luce. Tirò un sospiro di sollievo. Era
vuota.
Un rumore improvviso lo fece sobbalzare. Per poco il
fuoco non gli cadde all'interno imbottito della
capsula.
Si voltò di scatto.
Non c'era nessuno.
Vidar si sedette, la schiena appoggiata al metallo.
Pensò alla serie di casi che lo avevano condotto in
quella situazione assurda.
Cosa fosse accaduto dal momento in cui aveva chiuso
gli occhi sul treno per Lom fino a quando si era
risvegliato nella giungla con un'arma puntata alla
testa, era un mistero. Si figurò un tragico errore
umano, una capsula - creduta vuota - che veniva
inviata in qualche paese asiatico per la
rottamazione, e che finiva nelle mani di
guerriglieri. Con una certa frequenza le capsule sui
treni venivano rinnovate; quelle vecchie venivano
probabilmente rivendute o regalate al terzo mondo.
Ad ogni modo era inutile interrogarsi troppo; non ne
sarebbe venuto mai a capo se non tornando alla
civiltà.
Da quando si era svegliato non aveva avuto un solo
attimo di pace. Calci, pallottole, fughe, tigri. Si
sentiva stremato. Sapeva che non sarebbe mai uscito
vivo da quella giungla, anche ammesso che fosse
uscito da quella caverna spaventosa. Sapeva che
erano scarse anche le sue possibilità di
sopravvivere fino all'indomani. La caverna pareva
immensa e piena di pericoli. Chissà quali animali,
piccoli o grandi, sicuramente letali, vi abitavano.
Se li sentiva tutti attorno che lo osservavano.
Fu allora che cominciò a pensare a quell'idea…
All'inizio la respinse subito come una follia.
Era strano che proprio ad un claustrofobico come lui
fosse venuta quell'idea, anche se la situazione non
era certo delle più normali.
Si tastò le gambe. Il dolore era quasi
insopportabile. Ma chi stava prendendo in giro? Non
ne sarebbe mai uscito vivo.
Aveva però qualche possibilità non esattamente da
vivo…
Gettò a terra la torcia improvvisata e si arrampicò,
con grande sforzo. Riuscì dopo molti tentativi ad
infilarsi nella capsula. L'imbottitura era comoda ed
odorava quasi di nuovo. Era rimasta sigillata a
lungo, ma era chiaro che era già stata usata. La
batteria indicava una carica al 91 per cento.
Premette un pulsante dall'interno e lo sportello
iniziò lentamente a chiudersi, mentre una luce
azzurrina soffusa, proveniente da un neon che faceva
da orlo alla sua figura, aumentava gradualmente
d'intensità. Aspettò ancora qualche minuto, dopo che
il coperchio fu chiuso, a premere il pulsante per
iniziare il processo criogenico. Fissata con del
nastro adesivo, proprio davanti ad i suoi occhi,
c'era l'immagine di una qualche divinità esotica
seduta a gambe incrociate. Sullo sfondo si intuiva
una foresta sacra. I colori erano molto vivaci. Lo
sguardo della divinità, che aveva una bellezza
androgina e la pelle di uno strano colore, era molto
dolce e rassicurante. Sotto spiccava una scritta in
un alfabeto sconosciuto. L'ipotesi che la capsula
fosse appartenuta ad un eremita moderno era sempre
più plausibile. Chissà cosa l'aveva spinto ad
interrompere il suo sonno criogenico. Di solito
questi individui programmavano "sonni" di almeno un
secolo. Questo pensiero era poco rassicurante…
La capsula poteva essere programmata per un
risveglio automatico, ma questo non poteva avvenire
prima di una decina di anni. Poteva programmarlo
soltanto di decennio in decennio: venti, trenta,
quaranta… fino all'infinito in via teorica. Era
strano pensare che, se nessuno lo avesse svegliato
prima, si sarebbe fatto un sonno lungo dieci anni.
Al massimo aveva dormito per dieci ore, fino a quel
momento. Sperò di non avere incubi. Dieci anni erano
un sacco di tempo.
Cosa avrebbe trovato al risveglio? Una capsula
Mavisan era, in un certo senso, così simile ad una
macchina del tempo…
Tornò a guardare la divinità sconosciuta. Pensò che
non era male addormentarsi con quell'immagine
davanti agli occhi, ma nel portafoglio aveva
qualcosa di meglio. Tirò fuori la foto di Sonja -
era curioso pensare che l'ultima volta che l'aveva
vista era stata su una panchina della stazione di
Beitenfossen poco prima di entrare in un'analoga
capsula - la sostituì alla divinità sconosciuta,
staccando con attenzione il nastro e riutilizzandolo
per fissare la foto. Mentre chiudeva gli occhi
dolcemente, Sonja tornava a sorridergli da un tempo
e da un luogo lontano.
Firenze, 11 marzo - 23 ottobre 2007
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