Eventi  -  Redazione  -  Numeri arretrati  -  Edizioni SDP  -  e-book  -  Indice generale  -  Letture pubbliche  -  Blog  -  Link  

  Indice   -[ Editoriale | Letteratura | Musica | Arti visive | Lingue | Tempi moderni | Redazionali ]-


Narrativa

La capsula di Massimo Acciai, Il lupo di Massimo Acciai e Antonella Pedicelli, Disordine di pensieri di Antonio Caterina, Il deserto e la città di Elisabetta Giancontieri, La cura di Andrea Mucciolo, La macchina del tempo di Andrea Mucciolo, Il cellulare di Massimo Acciai e Andrea Mucciolo, Isaia di Matteo Nicodemo, Resoconto del Viaggio nelle Province Occidentali di Paolo Ragni

Poesia italiana

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai e Matteo Nicodemo, Stefano Calosso, Andrea Cantucci, Antonio Carollo, Antonio Caterina, Rossana D'Angelo, Lucia Dragotescu, Eleonora Ruffo Giordani, Carolina Lio, Cesare Lorefice, Roberto Mosi, Anna Maria Volpini

Poesia in lingua

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, in lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai, Dario De Lucia, Amanda Nebiolo

Interviste

Intervista a Dario De Lucia
a cura di Massimo Acciai
Il Simposio di Poeti: Intervista a Giovanna Salerno
a cura di Massimo Acciai

Recensioni

- "Pensieri a banda larga" di Dimitry Rufolo
- "Tre metri sotto terra" di Massimiliano Nuzzolo
- "Fiori d'anima" di Eleonora Ruffo Giordani, nota di Massimo Acciai
- "Basso Impero" di Claudio Comandino, nota di Enrico Pietrangeli
- "Autunno tedesco. Viaggio tra le rovine del Reich millenario" di Dagerman S.
- "Senza dirsi" di Ettore Giaccari
- "La voce come medium: Storia culturale del ventriloquio" di Steven Condor
- "Tre mesi di febbre- Storia del killer di Versace" di Gary Indiana
- "La memoria dell'acqua" di Antonio Messina, recensione di Patrizia Garofano
- "Le vele di Astrabat" di Antonio Messina, recensione di Monica Cito
- "Il racconto ulteriore" di Flavio Ermini, nota di Enrico Pietrangeli
- "Adottato" di Josè Monti
- "Trame di mutevoli speranze…" di Concetta Angelina Di Lorenzo, nota di Massimo Acciai
- "Canti dai mobilifici o maledizioni in Brianza", a cura di Fabio Paolo Costanza
- "Vangelo di Giuda" di Antonio Bica, recensione di Simonetta De Bartolo
- "101 sms d'amore e d'odio" di Anna Maria Volpini, nota di Massimo Acciai
"Ad Istanbul, tra pubbliche intimità" di Enrico Pietrangeli, nota di Massimo Acciai
- "Teatro totale" di Alfio Petrini, nota di Enrico Pietrangeli

Saggi

Altermodernismo e poesia
Articolo di Apostolos Apostolou
L'estetica e la poetica come dinamica dell'espressione filosofica?
Articolo di Apostolos Apostolou
Il libro digitale, o e-book, ha un futuro?
Articolo di Andrea Mucciolo
La poesia non so cosa sia
Articolo di Cesare Lorefice

La capsula
 

di Massimo Acciai


Esteriormente l'irritazione di Vidar si limitò ad una breve contrattura della mascella nel momento in cui, cercando nella valigetta da viaggio, si ricordò improvvisamente di aver dimenticato il libro a casa, sulla scrivania, nella fretta della partenza. Imprecare non faceva parte del suo carattere nordico, soprattutto imprecare in pubblico e ad alta voce, ma quella sbadataggine poteva rovinare la giornata. Era molto, molto seccante. Si accese nervosamente una sigaretta.
Rimase perplesso qualche minuto, seduto su una panchina vicino al binario, indeciso sul da farsi. Non era una decisione facile; le alternative erano entrambe spiacevoli. Da una parte c'era un viaggio di dieci ore, senza un paesaggio da vedere dal finestrino visto che si trattava di viaggiare di notte, senza un compagno con cui far conversazione e senza un libro da leggere. Dall'altra parte c'era la capsula Mavisan.
Vidar apparteneva a quella piccola minoranza di persone che ancora nutrivano sospetti verso le capsule Mavisan. Eppure l'ibernazione era divenuta negli ultimi decenni così comune e banale che ormai la gente vi ricorreva per evitare la più piccola attesa. Sembravano lontanissimi i tempi in cui era una tecnica complessa, costosa e rischiosa a cui ricorrevano malati terminali per essere poi risvegliati decenni o secoli dopo, quando la scienza avrebbe avuto gli strumenti per curarli. Quei poveretti non avrebbero in realtà mai più rivisto la luce del sole; all'epoca la tecnica era troppo rozza, ma la scienza era in effetti andata avanti ed il campo dell'ibernazione aveva avuto sviluppi straordinari da quando era stata inventata il metodo criogenico Mavisan. Le prime capsule Mavisan erano state istallate negli ospedali, in seguito sui voli intercontinentali e su navi a lunga percorrenza. Sui treni erano arrivate qualche anno dopo ed era stato subito un boom di richieste. C'era persino chi prenotava una capsula anche per un viaggio da Dale a Voss; un viaggio da meno di venti minuti!
Vidar non riusciva a capire come la gente avesse vinto così presto l'iniziale diffidenza verso la criogenia. Si trattava pur sempre di portare la temperatura corporea sotto zero (quanti gradi sotto zero non aveva mai desiderato saperlo) e rallentare il metabolismo fin quasi ad annullarlo. Qualcosa come un respiro ogni ora. Era qualcosa di troppo simile alla morte per non provare un senso di claustrofobia nel distendersi in una di quelle capsule d'acciaio e affidarsi completamente a macchine e tecnici.
Pazienza. Prima o poi avrebbe dovuto comunque farci l'abitudine, si disse Vidar rimuginandoci sopra. Le carrozze riservate ai "viaggiatori svegli" erano state ridotte ulteriormente con l'inizio dell'anno, ed era facile prevedere che sarebbero un giorno scomparse del tutto, o almeno i treni con tali carrozze si sarebbero fatti molto rari. Dopo tutto da quando le capsule erano state montate nelle carrozze speciali non era accaduto neanche un incidente, a parte... ma anche quello era stato di poco conto e statisticamente irrilevante. Le capsule - assicuravano gli esperti di criogenia - erano praticamente indistruttibili, in grado di sostentare una persona per un tempo lunghissimo, valutabile nell'ordine di secoli, anche se naturalmente nessuno aveva sperimentato una tale possibilità, tranne - ma si trattava più di leggenda che di realtà…
Il controllore fischiò, riportando Vidar alla realtà. Doveva assolutamente prendere quel treno, non ce n'erano altri fino alla mattina successiva, e allora avrebbe fatto tardi all'appuntamento con Sonja. D'istinto prese il portafoglio dalla tasca e ne tirò fuori una foto sbertucciata, risalente a qualche anno prima. Sonja era bellissima, con i suoi occhi scuri e dolci ed il sorriso luminoso. Al pensiero di Sonja parte dell'irritazione si dissolse in un sorriso appena abbozzato. Comunque di passare la notte in stazione non se ne parlava nemmeno. Maledisse ancora la sua sbadataggine e si diresse deciso verso la carrozza d'ibernazione più vicina.

Riprese conoscenza lentamente. I tecnici risvegliavano i passeggeri qualche minuto prima dell'arrivo in stazione. Un individuo medio si riprendeva dagli effetti dell'ibernazione nel giro di un minuto al massimo, sveglio e pimpante come nessun sonno naturale poteva ottenere. Molti ricorrevano alle capsule anche per questo motivo. Un'indagine aveva accertato addirittura che più del 60 per cento degli utenti soffriva d'insonnia ed aveva trovato una soluzione ideale al problema. Questo faceva prevedere che presto le capsule Mavisan sarebbero entrate nelle case private dei comuni cittadini. In alcune, soprattutto di personaggi famosi o comunque benestanti, c'erano già da tempo.
Vidar non era perciò del tutto sicuro che quell'intorpidimento fosse normale. Un minuto era passato di sicuro e doveva essere già sveglissimo, invece indugiava in quello stato simile al dormiveglia, come un alunno svogliato al mattino. Era strano.
Aprì infine gli occhi e fu abbagliato da una luce forte che non si aspettava. Le carrozze Mavisan erano tenute in una riposante penombra per agevolare il risveglio, lo sapevano tutti. Invece un sole impietoso gli prendeva a schiaffi i bulbi oculari, così violentemente che d'istinto li richiuse e cercò di riaprirli piano piano. Riuscì così a distinguere qualche particolare dell'ambiente in cui si trovava. Quel che vide non gli piacque per niente.
Un'arma, una specie di mitra, era puntato contro la sua faccia.
Dalla parte del grilletto c'era un uomo dalla pelle scura, bruciata dal sole. Uno strano cappello, che aveva qualcosa di militaresco, era calcato sulla testa calva. Gli occhiali scuri che portava gli impedirono di decifrare le sue intenzioni dallo sguardo, ma i tratti del viso erano duri e non promettevano nulla di buono.
"Chi è lei?" domandò infine Vidar, con un filo di voce.
L'altro si limitò a fissarlo, senza dire parola.
"Dove mi trovo?"
Nessuna risposta.
"Insomma…" Vidar provò ad alzarsi, ma dovette ritornare giù per non andare a sbattere contro la canna del mitra che il tizio continuava a puntargli alla testa.
Era una situazione molto, molto seccante.
"Va bene, in che modo posso aiutarla?"
L'altro corrugò la fronte in modo interrogativo. Era chiaro, come aveva fatto a non pensarci prima! Non capiva la sua lingua. Doveva essere uno straniero. Provò a ripetere le domande in inglese. Quello ebbe un moto di rabbia e gli schiacciò la punta del mitra contro la fronte, urlando una frase in una lingua sconosciuta.
"Ma insomma, come posso…"
Una mano robusta gli afferrò un braccio e lo sollevò quasi di peso, mostrando una forza notevole. Quando si trovò faccia a faccia il tizio armato sentì un odore sgradevole di sudore e sporcizia che gli diede la nausea. Adesso cominciava ad essere davvero preoccupato.
Il tizio urlò qualcosa nella sua lingua spingendolo in malo modo. Vidar ipotizzò che il poco cortese invito, comprensibile anche senza parole, era in qualche lingua asiatica e che avrebbe fatto meglio ad ubbidire. Non sapeva ancora se aveva a che fare con un pazzo o un criminale, o entrambe le cose, ma certo quel mitra aveva tutta l'aria di essere carico.
Attorno a lui c'era una specie di villaggio di poche capanne. Il cielo era azzurro, il sole alto e caldissimo. L'orizzonte era chiuso da una foresta da un lato e da una montagna imponente dall'altro. La foresta - o, più probabilmente, la giungla - iniziava ai margini del villaggio e aveva un aspetto decisamente tropicale, così come il clima. Si accorse distrattamente del sudore che scendeva abbondante dalla fronte e dal collo sulla schiena, inzuppandogli gli abiti, adatti a climi ben più freddi. I movimenti erano impacciati, si sentiva decisamente fuori posto, pensò che vista dal di fuori doveva essere una scenetta alquanto buffa.
Il tipo lo spinse di nuovo di nuovo, facendolo cadere disteso per terra. Questo era troppo anche per un tipo calmo e razionale come lui. In quel modo non riusciva a concentrarsi su nulla, tanto meno sul modo di scappare. Non c'era letteralmente il tempo di riflettere.
Si rialzò con calma, fingendo di essersi fatto più male di quello che era in realtà. Il suo carceriere gli tirò un calcio potente sulle costole, lasciandolo senza fiato per qualche attimo. Era frastornato ma gli parve di udire una risata.
"Basta, perdio!" Riuscì infine a dire. Avrebbe voluto essere un grido, ma gli uscì appena il fiato per essere udito, ma non capito a causa della lingua.
Udì uno sparo.
Per un attimo pensò che il tizio avesse perso definitivamente la pazienza con cui e che avesse terminato quel gioco crudele. Invece si sorprese di trovarsi ancora tutto intero, sdraiato per terra, a scrutare il suo carceriere che lo fissava con occhi spalancati e vuoti, la bocca aperta ed un foro di proiettile nel centro della fronte.

Quello che avvenne negli attimi immediatamente successivi fu un ricordo confuso, in cui predominava una frenesia ed un odore penetrante di sangue, sudore e polvere da sparo. La mente decise che era troppo per lei e lasciò tutto in mano all'istinto e al corpo. Vidar si rotolò lontano dal cadavere, si rialzò con sorprendente agilità - grazie al molto tempo libero dedicato allo sport - e si mise a correre.
Intorno a lui forme indistinte e caotiche correvano in tutte le direzioni. Spari. Urla. Ordini. Nel giro di un attimo si era scatenata una vera e propria battaglia. Un gruppo di uomini, sicuramente soldati, era piombato sul villaggio ed aveva iniziato un massacro. Lui si trovava esattamente al centro, pur essendone del tutto estraneo. Ma le pallottole che volavano da tutte le parti non sembravano voler fare questo tipo di distinzioni.
Corse, corse a perdifiato, stupendosi di quanto lontano potevano portarlo i muscoli delle gambe, fino a quel momento messe alla prova solo su piste da sci e in jogging mattutini nel parco di Sogndal. Lo sguardo diritto in avanti, alla ricerca disperata di un riparo. Nessuno pareva badare a lui in particolare, ma la sensazione di pericolo mortale era addosso in ogni attimo. Tutto si stava svolgendo nel giro di uno o due minuti al massimo, ma il tempo si era dilatato in modo impressionante. Vedeva uomini e donne cadere per terra, schizzi di sangue e bombe che facevano saltare capanne e bidoni di carburante, proprio come in un film d'azione. Il rumore era assordante.
Continuò a correre, con l'impressione di aver evitato almeno un paio di volte una pallottola per pochi millimetri. Cominciò a rallentare. Il cuore batteva all'impazzata. Si trovava finalmente abbastanza lontano dalla battaglia da potersi fermare un po' a riflettere e guardarsi intorno. I rumori giungevano lontani. Si trovava nella giungla.
Pensò che la sua situazione non era poi migliorata di molto.

Camminò a lungo, cercando di farsi largo nell'intrigo di una vegetazione impressionante, che non aveva mai visto fino ad allora. Caldo ed umidità erano insopportabili. Si liberò dei vestiti più pesanti, nascondendoli come meglio poteva tra le felci giganti. Si sentiva debilitato fino allo sfinimento. Ogni passo era una tortura. Aveva un'idea molto vaga dei pericoli di camminare in una foresta tropicale, molto probabilmente era stato molto fortunato - nella sfortuna - ad essere ancora vivo.
Per un po' di tempo andò tutto abbastanza bene. Per tenere la mente occupata, quel tanto che bastava per non inciampare in qualche radice, cominciò a pensare a Sonja. Quel pensiero era abbastanza lontano dai suoi guai attuali, ma dopo un po' dovette pensare a qualcos'altro; l'idea che lei lo stesse aspettando a Lom, mentre lui si trovava probabilmente lontano migliaia di chilometri, era piuttosto deprimente. Chissà cosa avrebbe pensato… Certo, sarebbe stata preoccupata, ma alla fine le sarebbe venuto il sospetto che lui l'avesse abbandonata. La conosceva bene. Come spiegarle che aveva preso il treno e che si era risvegliato nella giungla? Pensò ai suoi occhi scuri che sapevano gelare un uomo senza una sola parola. Penso che, quando fosse riuscito a tornare a casa, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata…
Un rumore improvviso e un tuffo al cuore. Rumore di passi. La mente riprese a tremare. Le gambe si bloccarono. Lo stavano seguendo; amici o nemici? Fuggire o nascondersi? Doveva decidere in fretta. Si distese a terra, cercando di rimanere immobile. Non riusciva a capire da dove venivano i passi. Era troppo spaventato. Il cuore batteva furioso.
Aspettò.
I passi si stavano allontanando. Un'idea forse folle gli attraversò la mente. Forse era il caso di seguirli; almeno sarebbe tornato alla civiltà. Non si sentiva più tanto sicuro in mezzo a quella vegetazione spaventosa, tanto più quando sarebbe calata la sera e poi la notte. L'idea di passare la notte là fuori era terrificante. Avrebbe potuto seguire gli uomini a distanza di sicurezza, magari poi non erano gli stessi che avevano sparato…
Si fece coraggio e si rialzò. Molto lentamente. I passi adesso erano lontani, ma curiosamente era più facile capire la direzione. Rischiava però di perderli. Quelli erano abituati a muoversi nella foresta, certamente più di lui. Forse stava facendo una sciocchezza…
Si fermò.
Li aveva persi.
Si era perso.
Di nuovo.

La sera adesso pareva vicina. Già la luce che filtrava tra le fronde era cambiata; più sfumata, dorata. Quante ore di luce gli restavano? Difficile dirlo. L'orologio era del tutto inutile. Il caldo, quello, era però sempre opprimente. Aveva un disperato bisogno di bere. Non poteva andare avanti così, se non lo facevano fuori le pallottole ci avrebbe pensato il clima a stenderlo.
Oppure ci avrebbe pensato la tigre che era comparsa improvvisamente davanti a lui.
Si accorse del pericolo quando si trovava già vicinissima. Era stata silenziosa, proprio come ci si aspetta da un felino. Il primo pensiero che gli passò per la testa fu che quel felino aveva una testa enorme, esagerata. Nei documentari televisivi sulla giungla non si aveva una reale percezione delle dimensioni di una tigre, ne dell'odore forte che emanava. Tutto questo però Vidar lo avrebbe pensato più tardi; in quel momento non c'era posto per alcun pensiero al di fuori della fuga.
Corse con tutte le sue forze, per quanto poteva permettergli la vegetazione. Sapeva di non avere possibilità, glielo diceva il suo istinto più antico, quello stesso istinto sopravvissuto ad analoghe corse in ambienti simili da parte dei suoi antenati preistorici. Ma lui era un uomo del XXI secolo e non una qualche specie di primate vissuta milioni di anni prima. Questo faceva la sua differenza.
Anche questo pensiero sarebbe giunto più tardi. In quel momento c'era solo la corsa e la paura. Tutto sembrò svolgersi nell'arco di alcuni minuti, ma doveva sicuramente essersi trattato di secondi perché altrimenti sarebbe stato raggiunto ed ucciso dalla belva, forse più umanamente degli uomini che aveva lasciato al villaggio ma di certo non meno efficacemente.
Invece precipitò.

Sul momento si sentì soltanto cadere, senza capire dove e perché. Il terreno mancò letteralmente sotto i piedi. Il volo sembrò non finire mai. Il buio lo inghiottì. L'urlo si perse in un eco di caverna. Urtò con la schiena e con la gamba destra contro qualcosa di morbido, eppure un dolore atroce lo costrinse ad urlare di nuovo. Chiuse gli occhi con forza e non li riaprì che quando il dolore cominciò ad attenuarsi. Riaprendoli a poco a poco notò in alto solo una striscia di luce in una vastità immensa di buio. Qualcosa nella sua mente gli diceva che quella striscia di luce era molto lontana, e che questo non era un bene. Si sentiva confuso e dolorante, tanto da non riuscire a muovere nulla. Una miriade di pensieri incoerenti gli attraversò la mente.
Chiuse di nuovo gli occhi e li riaprì rapidamente. La vista si stava abituando a quell'oscurità; la poca luce che arrivava dalla fessura, che doveva pure essere abbastanza grande da ingoiare un uomo e una tigre, era appena sufficiente per ricostruire l'accaduto. Doveva essere precipitato in una enorme caverna insieme alla tigre, in seguito ad un cedimento improvviso del terreno, e per un caso incredibile era caduto esattamente sul corpo della tigre, la quale aveva toccato terra un attimo prima di lui rimanendo uccisa sul colpo. L'unico motivo per cui lui era ancora vivo lo doveva probabilmente al corpaccio del felino che aveva attutito il colpo.
Cercò di capire se era tutto intero. Iniziò a muovere dapprima le dita di una mano. Rispondevano bene. Provò con quelle dei piedi. Aveva qualche difficoltà con quelle del piede destro. Per l'esattezza, non riusciva a sentirle. Era come se non esistessero più. Provò quindi a muovere il braccio destro. Faceva male a muoverlo, ma si muoveva. Con quello sinistro andava un po' meglio. Le gambe invece non volevano saperne. Doveva essersele rotte entrambe. Un gran brutto guaio.
Vidar si vide perduto, cadavere. Per un attimo desiderò esserlo. Essere divorato da una tigre nella giungla non doveva essere peggio che morire di fame e sete, da solo, nel buio di una caverna. Rimpiangeva persino di non essersi beccato una pallottola al villaggio durante la sparatoria. Invece il buio freddo e umido lo costringeva a riflettere sul suo peggiore incubo: la claustrofobia.

Era impossibile misurare lo scorrere del tempo. Avrebbe potuto guardare l'orologio, ma non ne aveva ne la voglia ne le forze. Intanto la luce che scendeva dalla crepa in alto diminuiva rapidamente. Stava scendendo la notte. Il pensiero di passare una notte là sotto, al buio assoluto, rischiava di farlo impazzire. Già mille rumori, probabilmente immaginati, gli affollavano la mente.
Ad un certo momento ebbe la percezione di qualcosa che stava strisciando verso di lui.
Un brivido corse lungo la schiena. Si scoprì stavolta incapace di urlare, come se avesse esaurito l'aria nei polmoni. Rimase immobile, in ascolto. Non c'era nessun rumore, doveva esserselo immaginato.
Quel terrore improvviso servì almeno a scuoterlo un po'. Riuscì a tirarsi un po' su e a mettersi seduto. Ormai la luce era davvero poca, insufficiente quasi per guardarsi le dita. Si frugò in tasca. Il contatto delle dita con l'accendino e il pacchetto di sigarette gli restituì un po' di sicurezza. La fiammella gettò un alone spettrale tutto attorno. Si accese una sigaretta e si guardò intorno, muovendosi con estrema lentezza. C'era qualche ramo spezzato vicino a lui, avrebbe potuto accendere un piccolo falò. Ne raccolse un po', poi tirò fuori alcune inutili banconote dal portafoglio e in qualche minuto riuscì ad ottenere un rassicurante e caldo bagliore. Gettò distrattamente un'occhiata al corpo enorme ed inerte della tigre, accanto a lui. Avrebbe avuto anche qualcosa da mangiare se riusciva a procurarsi qualcosa di tagliente; un bel sasso affilato per esempio. Era ripugnante tagliare quella carne sanguinolenta e metterla sul fuoco per arrostirla un po', ma lo stomaco non poteva aspettare oltre. In fondo il sapore non era così malvagio, anche se la cottura lasciava a desiderare.
Calmata la pancia e recuperate un po' di forze, scoprì di riuscire a trascinarsi per qualche metro, pur con molta pena. Sentiva freddo e brividi in tutto il corpo. Doveva avere la febbre.
C'erano altri rametti sparsi attorno, e doveva esserci altre cose combustibili più in là. Tolse un ramo dal fuoco e, tenendolo a mo' di torcia, si avventurò nell'oscurità.
Ad un certo punto la urtò con un gomito. Si girò di scatto. Guardò l'oggetto, luccicante sotto la luce del fuoco, con incredulità.
Era una capsula Mavisan.

Esaminò con cura la capsula. Era un modello piuttosto vecchio, uno dei primi utilizzati negli ospedali più di un ventennio prima. Vidar non era un esperto, ma sapeva che quegli affari erano costruiti per durare praticamente in eterno. Avevano un consumo di energia irrilevante; una batteria alla carica massima garantiva un funzionamento per almeno un paio di secoli.
Aveva sentito parlare di alcuni strani eremiti moderni che si ritiravano in luoghi impervi, estremi, portandosi dietro capsule Mavisan. Oramai - pensò con ironia - neanche gli asceti avevano più la pazienza di aspettare da svegli l'Illuminazione. Questa considerazione lo fece sorridere. Queste persone provenivano soprattutto dal ricco Occidente e si concedevano lunghissimi periodi di "assenza dal mondo", passati in stato criogenico, per risvegliarsi in un qualche futuro con la speranza di trovare un mondo migliore o qualcosa del genere. Alcuni di loro sostenevano che era possibile trovare in un sonno di ghiaccio quella calma interiore irraggiungibile in qualsiasi altro stato meno definitivo della morte. Non c'era nulla di scientifico e Vidar aveva sempre pensato che fosse un po' folle tutto ciò, che si trattasse forse di una delle tante leggende metropolitane. Pareva invece che si fosse imbattuto in una di quelle "leggende metropolitane". Non c'era altra spiegazione logica per la presenza di una capsula funzionante in quel luogo sperduto.
La capsula sembrava infatti in buono stato. Era chiusa. Appena sfiorò il display che si trovava sul lato destro, subito si illuminò il quadro di controllo. Il coperchio si sollevò lentamente, con un sibilo familiare. Vidar accese un altro legno per avere più luce. Tirò un sospiro di sollievo. Era vuota.
Un rumore improvviso lo fece sobbalzare. Per poco il fuoco non gli cadde all'interno imbottito della capsula.
Si voltò di scatto.
Non c'era nessuno.
Vidar si sedette, la schiena appoggiata al metallo. Pensò alla serie di casi che lo avevano condotto in quella situazione assurda.
Cosa fosse accaduto dal momento in cui aveva chiuso gli occhi sul treno per Lom fino a quando si era risvegliato nella giungla con un'arma puntata alla testa, era un mistero. Si figurò un tragico errore umano, una capsula - creduta vuota - che veniva inviata in qualche paese asiatico per la rottamazione, e che finiva nelle mani di guerriglieri. Con una certa frequenza le capsule sui treni venivano rinnovate; quelle vecchie venivano probabilmente rivendute o regalate al terzo mondo. Ad ogni modo era inutile interrogarsi troppo; non ne sarebbe venuto mai a capo se non tornando alla civiltà.
Da quando si era svegliato non aveva avuto un solo attimo di pace. Calci, pallottole, fughe, tigri. Si sentiva stremato. Sapeva che non sarebbe mai uscito vivo da quella giungla, anche ammesso che fosse uscito da quella caverna spaventosa. Sapeva che erano scarse anche le sue possibilità di sopravvivere fino all'indomani. La caverna pareva immensa e piena di pericoli. Chissà quali animali, piccoli o grandi, sicuramente letali, vi abitavano. Se li sentiva tutti attorno che lo osservavano.
Fu allora che cominciò a pensare a quell'idea…
All'inizio la respinse subito come una follia.
Era strano che proprio ad un claustrofobico come lui fosse venuta quell'idea, anche se la situazione non era certo delle più normali.
Si tastò le gambe. Il dolore era quasi insopportabile. Ma chi stava prendendo in giro? Non ne sarebbe mai uscito vivo.
Aveva però qualche possibilità non esattamente da vivo…
Gettò a terra la torcia improvvisata e si arrampicò, con grande sforzo. Riuscì dopo molti tentativi ad infilarsi nella capsula. L'imbottitura era comoda ed odorava quasi di nuovo. Era rimasta sigillata a lungo, ma era chiaro che era già stata usata. La batteria indicava una carica al 91 per cento.
Premette un pulsante dall'interno e lo sportello iniziò lentamente a chiudersi, mentre una luce azzurrina soffusa, proveniente da un neon che faceva da orlo alla sua figura, aumentava gradualmente d'intensità. Aspettò ancora qualche minuto, dopo che il coperchio fu chiuso, a premere il pulsante per iniziare il processo criogenico. Fissata con del nastro adesivo, proprio davanti ad i suoi occhi, c'era l'immagine di una qualche divinità esotica seduta a gambe incrociate. Sullo sfondo si intuiva una foresta sacra. I colori erano molto vivaci. Lo sguardo della divinità, che aveva una bellezza androgina e la pelle di uno strano colore, era molto dolce e rassicurante. Sotto spiccava una scritta in un alfabeto sconosciuto. L'ipotesi che la capsula fosse appartenuta ad un eremita moderno era sempre più plausibile. Chissà cosa l'aveva spinto ad interrompere il suo sonno criogenico. Di solito questi individui programmavano "sonni" di almeno un secolo. Questo pensiero era poco rassicurante…
La capsula poteva essere programmata per un risveglio automatico, ma questo non poteva avvenire prima di una decina di anni. Poteva programmarlo soltanto di decennio in decennio: venti, trenta, quaranta… fino all'infinito in via teorica. Era strano pensare che, se nessuno lo avesse svegliato prima, si sarebbe fatto un sonno lungo dieci anni. Al massimo aveva dormito per dieci ore, fino a quel momento. Sperò di non avere incubi. Dieci anni erano un sacco di tempo.
Cosa avrebbe trovato al risveglio? Una capsula Mavisan era, in un certo senso, così simile ad una macchina del tempo…
Tornò a guardare la divinità sconosciuta. Pensò che non era male addormentarsi con quell'immagine davanti agli occhi, ma nel portafoglio aveva qualcosa di meglio. Tirò fuori la foto di Sonja - era curioso pensare che l'ultima volta che l'aveva vista era stata su una panchina della stazione di Beitenfossen poco prima di entrare in un'analoga capsula - la sostituì alla divinità sconosciuta, staccando con attenzione il nastro e riutilizzandolo per fissare la foto. Mentre chiudeva gli occhi dolcemente, Sonja tornava a sorridergli da un tempo e da un luogo lontano.

Firenze, 11 marzo - 23 ottobre 2007

Segreti di Pulcinella - © Tutti i diritti riservati