Eventi  -  Redazione  -  Numeri arretrati  -  Edizioni SDP  -  e-book  -  Indice generale  -  Letture pubbliche  -  Blog  -  Link  

  Indice   -[ Editoriale | Letteratura | Musica | Arti visive | Lingue | Tempi moderni | Redazionali ]-


Narrativa

La capsula di Massimo Acciai, Il lupo di Massimo Acciai e Antonella Pedicelli, Disordine di pensieri di Antonio Caterina, Il deserto e la città di Elisabetta Giancontieri, La cura di Andrea Mucciolo, La macchina del tempo di Andrea Mucciolo, Il cellulare di Massimo Acciai e Andrea Mucciolo, Isaia di Matteo Nicodemo, Resoconto del Viaggio nelle Province Occidentali di Paolo Ragni

Poesia italiana

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai e Matteo Nicodemo, Stefano Calosso, Andrea Cantucci, Antonio Carollo, Antonio Caterina, Rossana D'Angelo, Lucia Dragotescu, Eleonora Ruffo Giordani, Carolina Lio, Cesare Lorefice, Roberto Mosi, Anna Maria Volpini

Poesia in lingua

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, in lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai, Dario De Lucia, Amanda Nebiolo

Interviste

Intervista a Dario De Lucia
a cura di Massimo Acciai
Il Simposio di Poeti: Intervista a Giovanna Salerno
a cura di Massimo Acciai

Recensioni

- "Pensieri a banda larga" di Dimitry Rufolo
- "Tre metri sotto terra" di Massimiliano Nuzzolo
- "Fiori d'anima" di Eleonora Ruffo Giordani, nota di Massimo Acciai
- "Basso Impero" di Claudio Comandino, nota di Enrico Pietrangeli
- "Autunno tedesco. Viaggio tra le rovine del Reich millenario" di Dagerman S.
- "Senza dirsi" di Ettore Giaccari
- "La voce come medium: Storia culturale del ventriloquio" di Steven Condor
- "Tre mesi di febbre- Storia del killer di Versace" di Gary Indiana
- "La memoria dell'acqua" di Antonio Messina, recensione di Patrizia Garofano
- "Le vele di Astrabat" di Antonio Messina, recensione di Monica Cito
- "Il racconto ulteriore" di Flavio Ermini, nota di Enrico Pietrangeli
- "Adottato" di Josè Monti
- "Trame di mutevoli speranze…" di Concetta Angelina Di Lorenzo, nota di Massimo Acciai
- "Canti dai mobilifici o maledizioni in Brianza", a cura di Fabio Paolo Costanza
- "Vangelo di Giuda" di Antonio Bica, recensione di Simonetta De Bartolo
- "101 sms d'amore e d'odio" di Anna Maria Volpini, nota di Massimo Acciai
"Ad Istanbul, tra pubbliche intimità" di Enrico Pietrangeli, nota di Massimo Acciai
- "Teatro totale" di Alfio Petrini, nota di Enrico Pietrangeli

Saggi

Altermodernismo e poesia
Articolo di Apostolos Apostolou
L'estetica e la poetica come dinamica dell'espressione filosofica?
Articolo di Apostolos Apostolou
Il libro digitale, o e-book, ha un futuro?
Articolo di Andrea Mucciolo
La poesia non so cosa sia
Articolo di Cesare Lorefice

Il lupo
 

di Massimo Acciai e Antonella Pedicelli


Il mio viaggio cominciò per caso durante il lungo autunno del 1999. Non sapevo che sarei riuscito ad abbandonare tanto in fretta i miei affetti, le mie abitudini, le mie solitarie corse lungo le vie del paese in cui ho scritto e disegnato le mie prime parole, ma… nulla rimane sempre identico a se stesso, tutto è avvolto nella spirale del perenne mutamento e noi siamo spinti ad entrare in questa spirale, anche quando la voce ostinata della "Resistenza" ci martella a forza pensieri e sentimenti.
Il mio corpo provava a comunicare con me da tanto tempo. Il suo muoversi continuamene era un tenace invito a "partire", a risvegliare una coscienza desiderosa di sperimentare le immagini confuse a cui non ero in grado di dare un nome.
Il viaggio si realizzò come ideale di libertà e conoscenza. Sapevo di me stesso troppe poche cose in un oceano di meravigliosi colori fin troppo belli per essere anche solo immaginati. In preda a questo delirante pensiero, entrai con forza in un paio di vecchi scarponi, rimasti chiusi in un mobile logoro, fuori in balcone. Avevano un odore forte di terra e custodivano il coraggio di un adolescente, abituato a vagare sulle montagne sabine come un vecchio lupo solitario, bramoso di urlare al vento la conquista della vetta più alta. Quella vetta aveva un nome che aveva acceso le mie fantasie di bimbo e poi di adolescente; un nome che continuava ad esercitare un fascino irresistibile sulla mia mente di ventiquattrenne ancora in cerca di una collocazione nel vasto mondo. Aveva un nome mitico quella vetta, che poteva appartenere benissimo ad una terra fantastica di qualche saga medievale o di qualche mondo inventato. A dispetto di questo, Monte *** svettava a non più di trenta chilometri di strada da ***, il paese che mi aveva visto crescere e che mi accingevo a lasciare. Trenta chilometri che avevo intenzione di percorrere rigorosamente a piedi.
Doveva essere un viaggio importante, iniziatico, mistico. Da quel viaggio mi ripromettevo di tornare cambiato in profondità. O di non tornare affatto, chissà… La mia mente scattava in avanti ogni volta che incontrava il nome di quella montagna, era un impulso irresistibile verso la strada, unica salvezza. Tutto era possibile; sentivo che i limiti, se c'erano, erano al di là di quell'orizzonte angusto che dovevo superare. I limiti erano posti soltanto dalla mia mente.
Sapevo che non avrei potuto condividere con nessuno quel viaggio, nemmeno il progetto stesso di quel viaggio e ne tanto meno le motivazioni. Queste ultime non erano ben chiare neppure a me. C'era solo quell'istinto fortissimo ed incomunicabile. Sapevo che nessuno avrebbe capito. Nessuno avrebbe approvato, né d'altra parte necessitavo dell'approvazione di nessuno. Così presi e me ne andai in silenzio, senza chiasso, senza addii, in una notte stellata di ottobre.
La notte era bellissima e fresca. Avevo con me il mio zaino e i miei scarponi che sapevano di terra. Nello zaino, conservato anch'esso dai tempi nebbiosi della scuola, avevo infilato poche cose: un po' di crackers, una bottiglia d'acqua, un libro ed una cartina così vecchia e sbertucciata che aveva un po' l'aria di una mappa del tesoro. Sentivo solo il vento, mentre tentava di riportarmi alla mente vecchie frasi a cui volevo sottrarmi, come chi tenta di strapparsi di dosso strati di pelle ormai secchi e inutili, purtroppo non era facile. Cominciai a correre veloce sentendo il sangue colorarsi del rosso più acceso che avessi mai immaginato; le mie scarpe sostenevano questa folle corsa, ma il mio cuore mi stava gridando di rallentare. E piano piano cominciai a frenare quel battito impazzito. Mi guardai intorno con occhi da felino per percepire ciò che si nascondeva in quell'ambiente nuovo a cui ero stato destinato. Un sentiero roccioso mi accolse dignitoso nel suo abito autunnale, non potei fare a meno di percepirne gli odori e i colori con ogni parte di me stesso.
Iniziava così la mia avventura, con una serie di sensazioni familiari eppure del tutto nuove. Stavo riscoprendo, in una luce sconosciuta, il mio paesaggio e le case ormai dietro le mie spalle, ormai lontane. Poche luci alle finestre; i bravi paesani erano già sotto le coperte a quell'ora. I lampioni si sarebbero presto spenti.
La sagoma scura e misteriosa della montagna ritagliava un angolo di cielo privo di stelle. Aveva la forma quasi perfetta di una piramide di dolomia, un po' rigonfia sui fianchi. Di giorno avrei potuto vedere la vegetazione che le avvolgeva la base, come una gengiva un dente di dimensioni colossali, ed il colore chiaro della nuda roccia che costituiva la vetta, ad oltre mille metri d'altitudine.
Là era fisso il mio sguardo. Il mio passo seguì l'occhio con la calma e la sicurezza di chi ha un traguardo arduo da raggiungere ma ha la forza d'animo necessaria e tutto il tempo che gli serve.
Già qualcosa era cambiato in me. Nel mio respiro. Nel mio passo. Nei miei occhi. Furono proprio i miei occhi che si stupirono davanti alla sagoma grigia che ad un tratto frenò la mia fuga e il mio martellante ronzio di pensieri.
Riconobbi in quella sagoma il corpo ansimante di un lupo, una bestia meravigliosa percepita nei suoi colori e nelle sue forme grazie alla speciale luce di una notte fortemente stellata. Era una creatura solitaria e rappresentava da sempre l'altra parte di me stesso, quella con cui amavo trascorrere i momenti più tristi e più felici della mia esistenza. Non so dire per quanto tempo rimasi immobile davanti al suo corpo nudo, mi sentivo attratto dall'odore di carne come mai prima di allora. Guardai l'animale con profondo rispetto, muovendo il mio corpo come la bacchetta di un direttore d'orchestra: piano e forte in un tempo scandito solo dai nostri respiri. Il mio lupo era una femmina!
Mi fissava con uno sguardo espressivo, quasi umano. Io restituivo lo sguardo, completamente affascinato. Non avevo affatto paura. Non riuscivo a pensare. Non so quanto tempo passò prima che l'incanto si rompesse e la lupa… se ne andasse.
Ma non fuggì. Abbassò lo sguardo e si girò, con un movimento elegante, per inoltrarsi, senza fretta sul sentiero. Voleva che la seguissi. Non trovai nulla di strano nell'assecondarla.
Compresi fin da subito che non era un animale come tanti altri, e che quell'incontro non era casuale. Avevo finalmente incontrato la parte di me stesso troppo a lungo soffocata. Le mie frequenti domande circa il senso della vita raramente avevano trovato una risposta negli ambienti che frequentavo e ora, lasciandomi alle spalle, la "normalità" di tutti i giorni, potevo concretamente sperimentare tante risposte.. ne ero certo!
Confesso però che, per un lungo attimo, la sensazione di terrore e paura mi strinse in una morsa minacciosa, quasi gridandomi di tornare indietro, di riabbracciare le mie lenzuola e di risvegliarmi, come tutte le mattine, nel tepore della mia camera e nel suono delle tante voci a me familiari.... Quanti pensieri, troppi! Ormai la decisione era presa, non si poteva tornare indietro! Cominciai così a seguire la mia compagna di viaggio lungo quel sentiero roccioso, sapendo che potevo star tranquillo, perché non mi sarebbe accaduto nulla di spiacevole.
Nel conforto di questo nuovo pensiero, mi arrivò, all'improvviso, una specie di ricordo atavico, vecchissimo: una battaglia cruenta, tra uomini e lupi. Una battaglia risalente ad un tempo precedente il Diluvio, quando tra uomini ed animali non v'era ancora una distanza così grande come al giorno d'oggi. A quei tempi così arcaici un uomo ed un lupo potevano ancora comprendersi, pur parlando ognuno il proprio linguaggio. Le due lingue infatti, quella umana e quella lupesca, originate entrambe da una lingua madre molto più arcaica, non erano ancora così distanti.
Allora uomini e lupi si disputavano il possesso di quella montagna, che ancora non aveva il nome che tanto mi affascinava, ma uno in qualche modo simile. Era però la stessa vetta che stavo salendo io nel presente, molti eoni dopo quella battaglia di cui si era ormai persa ogni traccia nel mondo fisico. La stessa forma scura nella notte. La vetta verso cui entrambi gli eserciti portavano rispetto.
Vi era allora un uomo chiamato Gal che si era smarrito durante una caccia e vagava ancora nella notte alla ricerca dei compagni. Quell'uomo era in realtà poco più che un ragazzo, ma conosceva bene le insidie della notte e del vento gelido e traditore d'autunno. Camminava a passo spedito ma con calma, senza farsi prendere dal panico. All'epoca non v'erano sentieri e la strada andava trovata in mezzo al bosco, prestando attenzione ai mille dettagli che la fantasia primitiva trasformava in spiriti e figure a noi ignote. Gal si trovò così, all'improvviso, di fronte ad una lupa che pareva materializzata dal nulla.
"Gal, che vieni dal mare, ascolta la voce dei Lupi, non smarrire il ricordo, portalo con te e offrilo ai figli della Terra; parla di noi, di questo tempo magico, di un sogno che stai vivendo, di un sole che presto tramonterà. Gli uomini smarriranno il ricordo, avranno occhi senza luce, colori senza suoni, amore senza doni. Perderanno la strada del vecchio e del bambino che è in loro; non sapranno più cosa pensa la terra su cui depositano i loro umori. Tu sei Gal, il nostro umile signore, è nel tuo volto che si specchia la speranza di far tornare, un giorno, l'unione eterna tra uomini e lupi. Cavalca il nostro sogno fino ai confini dei tuoi mari limpidi. Noi dimoreremo sulla cima di questa montagna, saremo i custodi di un linguaggio antico che non morirà. Il sangue versato bagna il nostro cuore e ci chiede di non parlare più, di chiuderci nel silenzio, fino al giorno in cui, tu Gal, ritornerai su questo sentiero e sarai pronto per accogliere una nuova conoscenza."
Il vento aveva mosso appena i suoi capelli e quella voce penetrata a forza nelle sue orecchie, forse era solo la voce del vento; ma la lupa era davanti a lui, non poteva negarsi la visione reale che stava sperimentando. Capii all'improvviso che quella storia mi riguardava. Compresi che in qualche modo misterioso Gal ero io, e la lupa era la stessa di quei tempi arcaici. Questa consapevolezza fu quasi immediata e carica di mistero, come il ricordo della leggenda della guerra tra lupi e uomini.
Nel frattempo però avevo perso di vista la mia lupa. Cercai invano le sue tracce in giro. Una foresta maestosa, che - avrei giurato - poco prima non c'era, si chiudeva su di me intrecciando rami robusti e fronde così fitte da nascondere le stelle. Mi trovavo infatti nell'oscurità più completa, simile al ventre di una creatura fantastica; non a caso mi era entrata in testa quella strana idea, che la lupa si fosse scomposta in molecole e tramutata in un ambiente, ossia in una foresta impenetrabile. Sentivo infatti ovunque l'odore selvatico della lupa, omogeneo, sui fusti e sulle foglie che formavano un tappeto frusciante ai miei piedi. L'aria si era fatta più calda ed umida, piacevole nonostante il senso di chiusura che avvertivo.
Quasi a tentoni mi mossi. Non avevo alcun punto di riferimento, ma stranamente non avevo paura di inciampare o di smarrire la strada. Era la sensazione più strana che avessi mai sperimentato. Dopo qualche tempo riuscii persino a vedere qualcosa in quell'oscurità che non si era tuttavia diradata: erano i miei occhi ad essersi adattati ad essi, a farsi in qualche modo animaleschi. Era come se anch'io avessi subito una metamorfosi.
Tra le arcate maestose, formate dall'intreccio dei rami più alti, vidi venire verso di me la figura inaspettata di una suora.
Lentamente cominciò a spogliarsi, sentendosi libera nei movimenti fortemente sensuali. Quell'abito le copriva, come una tela rigida, un corpo che nessun uomo può descrivere con la sola visione; la mia bocca non era in grado di proferire parole, percepivo il suo odore acre in quel deserto umano e anelavo alla sua bocca, come il bambino che ruggisce la sua voglia di latte dal seno materno. Era impossibile trattenere il battito di un cuore strappato dai pregiudizi di una castrante moralità. Cominciai a seminare la mia saliva su quella terra selvaggia e mi resi conto che la metamorfosi mi aveva rapito al vecchio me stesso. Avrei potuto comprendere il messaggio dei lupi, solo nell'unione completa con il loro spirito e la loro carne, diventando parte di quella storia che ora potevo scrivere nuovamente nel mio tempo. Non avevo ancora incontrato la nudità di nessuna donna, ma la cercavo in ogni disperata tentazione, attratto dal peccato e dal suo nitido canto. Mi resi conto che la materia è la parte vibrante di ogni essere a cui si da' forma e nome. Così avvolto dalla veste lunare, spiavo quella femminea nudità, vinto dal desiderio di unirmi a lei. Con lo sguardo mi fece un cenno d'invito. Senza rendermene quasi conto mi trovai anch'io privo di vestiti, eppure senza alcuna sensazione di freddo o di peccato. Ero un lupo anch'io e al tempo stesso un uomo, anche se quella metamorfosi era - lo sentivo chiaramente - solo nella sua fase iniziale. Ci unimmo, carnalmente e spiritualmente, in quella foresta calda e fragrante come un utero materno. Attorno a noi le fronde frusciavano delicate, e mi tornava alla mente l'immagine del mare e delle onde. Anche le sensazioni che provavo erano simili ad ondate, e non c'era nulla di razionale in esse.
Il tempo si era fermato in quel giardino meraviglioso. Era un mondo fatto esclusivamente di odori e sensazioni tattili. Non esistevano più confini - questo mi diceva la mia mente. Invece i confini c'erano, anche se apparivano così lontani da perdersi oltre l'orizzonte del pensiero.
Senza rendermene conto mi trovavo di nuovo in cammino. Quel secondo incontro aveva lasciato in me una sete di conoscenza che non avevo mai sperimentato prima d'intraprendere quel viaggio. L'oscurità era sempre densa ma anche, a modo suo, netta e precisa. Era come un negativo. Puntini luminosi, forse lucciole, ballavano nel buio. Quella visione mi riportò all'infanzia. Il mio terzo incontro fu, forse non a caso, con un bambino di sette o otto anni.
Per quanto assurdo possa sembrare, riconobbi in lui mio padre: in fondo ci avevano sempre detto che ci somigliavamo come due gocce d'acqua. Aveva i capelli bagnati, gli occhi limpidi, le mani strette in una palla di terra che continuava ad impastare. Mi sembrava triste, in quella sua espressione vuota, senza parole, che io, in fondo, conoscevo bene. Non so perché ebbi quella strana visione; era come se il mio viaggio, tanto agognato, non poteva rendersi manifesto totalmente, se prima non permettevo a me stesso, l'incontro con Sergio bambino; con mio padre. Raccolsi anch'io un po' di terra umida e cominciai ad impastarla vicino a lui: non avevo mai giocato con mio padre, perché nei nostri silenzi c'era la rabbia di tanti conflitti mai risolti. Forse tra le
sue mani c'era ancora la voglia di sentire il sapore del gioco.
Quelle sue mani ora erano piccole e nude, non mi facevano paura. Le raccolsi lentamente per ascoltarle, in tutta la loro umile e potente innocenza: ebbi la conferma che il momento era reale. Avrei voluto piangere e abbracciarlo forte, gridandogli la forza di un amore mai rivelato nemmeno alla parte più intima di me stesso, ma non lo feci, perché nel mio grido c'era anche odio e disperazione e non volevo lasciare a quel bambino il ricordo di un momento tanto impetuoso. Gli lasciai le mani e lo invitai a correre insieme, come fanno spesso quei semi volanti che si incontrano nell'aria e, abbracciandosi, scelgono di condividere per un po' il loro viaggio, in attesa di un terreno su cui dolcemente posarsi per svelare la loro natura. Non so dire per quanto
tempo durò la nostra corsa, perché in quei minuti perfetti mi saziai profondamente di Emozioni e regalai, felicemente, nuovi colori al mio umano Spirito.
Arrestai infine la mia corsa e, voltandomi, mi accorsi di aver perso di vista il bambino. Non saprei dire se l'avevo superato o se si trovava avanti a me; certo non riuscivo a vederlo da nessuna parte. Mi trovavo ancora nella foresta, ma gli alberi erano molto più radi e la luce riusciva a filtrare rossastra. Era l'alba. Un nuovo sole nel frattempo stava nascendo oltre le chiome possenti degli alberi, dietro la montagna incantata.
Ormai riuscivo a distinguere tutti i dettagli, in una luce che pare irreale. Era quel momento in cui il giorno non è ancora giorno e la notte non è più notte. Un momento di passaggio, in cui tutto era sospeso. Anch'io mi sentivo sospeso e confuso più che mai.
Continuai a camminare, senza fretta. Mi sentivo l'animo leggero e giovane, freschissimo.
Ad un certo punto davanti a me vidi una figura seduta su di un masso. Mi avvicinai con uno strano presentimento. La figura era china su un libro, con le gambe accavallate e lo sguardo assorto nella lettura. Stentai un po' a riconoscere quella figura, che pure mi era in qualche modo familiare. Solo quando infine, dopo diversi minuti che lo osservavo, alzò gli occhi, lo riconobbi: ero io. Avevo trovato me stesso. Non mi ero riconosciuto subito perché ero io a quindici anni ed ero un po' cambiato in effetti, anche se ero sempre indubbiamente io. Che stavo leggendo? Avevo una gran voglia di chiederlo, ma la mia voce mi sarebbe sembrata troppo strana e credo che sarei impazzito.
Anche me stesso più giovane stava zitto, ma non sembrava avermi riconosciuto. Era naturale: io conoscevo lui/me, ma io/lui non sapeva nulla di me.
Mi venne spontaneo, dopo un po' di tempo, dare una sbirciata alla copertina del libro. Si trattava di quel lungo racconto mai terminato che avevo cominciato a scrivere in quarta elementare davanti alla splendida copertina del "Sandokan alla riscossa" di Salgari: da lì era nata l'idea del viaggio, la voglia di incontrare popoli selvaggi, di costruire capanne formate da rami intrecciati e coperte da foglie di banano e di palma; di esplorare le grandi isole malesi nella loro incredibile ricchezza di animali e piante; ero acceso dal fuoco ardente della creatività; in me nasceva la sana passione per tutto ciò che era legato alla conoscenza. Quanti ricordi in quel me stesso adolescente e quanta energia nel rivedermi immerso in una ricerca continua di libri da assaggiare e divorare senza tregua!
Il ragazzo cominciò a sfogliare lentamente quel mio vecchio lavoro di scrittura… e non solo; riconobbi infatti anche il disegno da me realizzato per rappresentare l'elefante su cui Phileas Fogg percorse un tratto del suo "giro del mondo in ottanta giorni" e poi il breve racconto in cui descrivevo il personaggio di Martin Eden, completamente assorto nella ricerca delle sue origini davanti al calmo mare della California. C'era poi l'immagine di Ulisse, bello e immortale nella sua barba appena punteggiata; in lui avevo creato il me stesso padrone del tempo e custode di antichi segreti mai svelati ad orecchio umano… ad un tratto lo sguardo del ragazzo si fece incredibilmente serio, le sue mani scivolarono su una pagina chiara, per niente usurata da alcun contatto umano; in essa riuscì a leggere poche parole tracciate con forza e senza alcun apparente significato. Parole confuse, sparse in tutto lo spazio della pagina: mare, casa, fratello, vita, sole, terra, padre, lupo, donna, madre… Provai a leggerle una dopo l'altra, di fretta, alzando il tono della voce ad ogni "ripasso" dello stesso termine e senza preoccuparmi della presenza del mio giovane me stesso, così incredibilmente vicino e distante allo stesso tempo. Non potevo più rimandare, era giunto il momento di ultimare il mio racconto: il viaggio intrapreso senza meta, alla fine mi aveva condotto a ciò che era rimasto incompiuto e che trovava la sua logica e naturale conclusione nel termine di un ciclo; il che non era a pensarci bene una reale conclusione dal momento che, per definizione, un ciclo si ripete all'infinito, ed ogni fine è un inizio e viceversa. Il mio ciclo terreno avrebbe avuto anch'esso una fine, un giorno, magari dopo milioni di altri sogni e di viaggi, e mi avrebbe riportato esattamente al punto di partenza, ma con un bagaglio di conoscenza molto superiore che avrei trasmesso al ciclo successivo, ed ogni volta sarebbe stata un'avventura emozionante, senza fine.
Anche questo pensiero era contenuto nella storia che stavo vivendo/scrivendo/leggendo, così come i miei strani incontri - la lupa, la suora, il bambino, il ragazzo - in cui avevo in realtà incontrato parti di me stesso; perché la vita è sempre caotica ed imprevedibile, eppure è al tempo stesso più romanzesca di qualsiasi romanzo concepito da mente umana.
Le parole erano state dette, le occasioni assaporate, la foresta vissuta, la vita… beh, quella scorreva incessante in me e in buona parte inesplorata anche senza aver mai raggiunto fisicamente quella vetta che mi ero prefisso.
Alzai gli occhi al cielo sereno, nei colori dolci dell'aurora autunnale di fine millennio e pensai semplicemente… che era bella.

Per mail tra Monterotondo - Firenze, 19 settembre - 15 ottobre 2007

Segreti di Pulcinella - © Tutti i diritti riservati