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Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi poetici inediti,
in lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai,
Dario De Lucia,
Amanda Nebiolo
Interviste
Intervista a Dario De
Lucia
a cura di Massimo
Acciai
Il Simposio di Poeti: Intervista a Giovanna
Salerno
a cura di Massimo
Acciai
Recensioni
Saggi
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Il mio viaggio cominciò per caso
durante il lungo autunno del 1999. Non sapevo che
sarei riuscito ad abbandonare tanto in fretta i miei
affetti, le mie abitudini, le mie solitarie corse
lungo le vie del paese in cui ho scritto e disegnato
le mie prime parole, ma… nulla rimane sempre
identico a se stesso, tutto è avvolto nella spirale
del perenne mutamento e noi siamo spinti ad entrare
in questa spirale, anche quando la voce ostinata
della "Resistenza" ci martella a forza pensieri e
sentimenti.
Il mio corpo provava a comunicare con me da tanto
tempo. Il suo muoversi continuamene era un tenace
invito a "partire", a risvegliare una coscienza
desiderosa di sperimentare le immagini confuse a cui
non ero in grado di dare un nome.
Il viaggio si realizzò come ideale di libertà e
conoscenza. Sapevo di me stesso troppe poche cose in
un oceano di meravigliosi colori fin troppo belli
per essere anche solo immaginati. In preda a questo
delirante pensiero, entrai con forza in un paio di
vecchi scarponi, rimasti chiusi in un mobile logoro,
fuori in balcone. Avevano un odore forte di terra e
custodivano il coraggio di un adolescente, abituato
a vagare sulle montagne sabine come un vecchio lupo
solitario, bramoso di urlare al vento la conquista
della vetta più alta. Quella vetta aveva un nome che
aveva acceso le mie fantasie di bimbo e poi di
adolescente; un nome che continuava ad esercitare un
fascino irresistibile sulla mia mente di
ventiquattrenne ancora in cerca di una collocazione
nel vasto mondo. Aveva un nome mitico quella vetta,
che poteva appartenere benissimo ad una terra
fantastica di qualche saga medievale o di qualche
mondo inventato. A dispetto di questo, Monte ***
svettava a non più di trenta chilometri di strada da
***, il paese che mi aveva visto crescere e che mi
accingevo a lasciare. Trenta chilometri che avevo
intenzione di percorrere rigorosamente a piedi.
Doveva essere un viaggio importante, iniziatico,
mistico. Da quel viaggio mi ripromettevo di tornare
cambiato in profondità. O di non tornare affatto,
chissà… La mia mente scattava in avanti ogni volta
che incontrava il nome di quella montagna, era un
impulso irresistibile verso la strada, unica
salvezza. Tutto era possibile; sentivo che i limiti,
se c'erano, erano al di là di quell'orizzonte
angusto che dovevo superare. I limiti erano posti
soltanto dalla mia mente.
Sapevo che non avrei potuto condividere con nessuno
quel viaggio, nemmeno il progetto stesso di quel
viaggio e ne tanto meno le motivazioni. Queste
ultime non erano ben chiare neppure a me. C'era solo
quell'istinto fortissimo ed incomunicabile. Sapevo
che nessuno avrebbe capito. Nessuno avrebbe
approvato, né d'altra parte necessitavo
dell'approvazione di nessuno. Così presi e me ne
andai in silenzio, senza chiasso, senza addii, in
una notte stellata di ottobre.
La notte era bellissima e fresca. Avevo con me il
mio zaino e i miei scarponi che sapevano di terra.
Nello zaino, conservato anch'esso dai tempi nebbiosi
della scuola, avevo infilato poche cose: un po' di
crackers, una bottiglia d'acqua, un libro ed una
cartina così vecchia e sbertucciata che aveva un po'
l'aria di una mappa del tesoro. Sentivo solo il
vento, mentre tentava di riportarmi alla mente
vecchie frasi a cui volevo sottrarmi, come chi tenta
di strapparsi di dosso strati di pelle ormai secchi
e inutili, purtroppo non era facile. Cominciai a
correre veloce sentendo il sangue colorarsi del
rosso più acceso che avessi mai immaginato; le mie
scarpe sostenevano questa folle corsa, ma il mio
cuore mi stava gridando di rallentare. E piano piano
cominciai a frenare quel battito impazzito. Mi
guardai intorno con occhi da felino per percepire
ciò che si nascondeva in quell'ambiente nuovo a cui
ero stato destinato. Un sentiero roccioso mi accolse
dignitoso nel suo abito autunnale, non potei fare a
meno di percepirne gli odori e i colori con ogni
parte di me stesso.
Iniziava così la mia avventura, con una serie di
sensazioni familiari eppure del tutto nuove. Stavo
riscoprendo, in una luce sconosciuta, il mio
paesaggio e le case ormai dietro le mie spalle,
ormai lontane. Poche luci alle finestre; i bravi
paesani erano già sotto le coperte a quell'ora. I
lampioni si sarebbero presto spenti.
La sagoma scura e misteriosa della montagna
ritagliava un angolo di cielo privo di stelle. Aveva
la forma quasi perfetta di una piramide di dolomia,
un po' rigonfia sui fianchi. Di giorno avrei potuto
vedere la vegetazione che le avvolgeva la base, come
una gengiva un dente di dimensioni colossali, ed il
colore chiaro della nuda roccia che costituiva la
vetta, ad oltre mille metri d'altitudine.
Là era fisso il mio sguardo. Il mio passo seguì
l'occhio con la calma e la sicurezza di chi ha un
traguardo arduo da raggiungere ma ha la forza
d'animo necessaria e tutto il tempo che gli serve.
Già qualcosa era cambiato in me. Nel mio respiro.
Nel mio passo. Nei miei occhi. Furono proprio i miei
occhi che si stupirono davanti alla sagoma grigia
che ad un tratto frenò la mia fuga e il mio
martellante ronzio di pensieri.
Riconobbi in quella sagoma il corpo ansimante di un
lupo, una bestia meravigliosa percepita nei suoi
colori e nelle sue forme grazie alla speciale luce
di una notte fortemente stellata. Era una creatura
solitaria e rappresentava da sempre l'altra parte di
me stesso, quella con cui amavo trascorrere i
momenti più tristi e più felici della mia esistenza.
Non so dire per quanto tempo rimasi immobile davanti
al suo corpo nudo, mi sentivo attratto dall'odore di
carne come mai prima di allora. Guardai l'animale
con profondo rispetto, muovendo il mio corpo come la
bacchetta di un direttore d'orchestra: piano e forte
in un tempo scandito solo dai nostri respiri. Il mio
lupo era una femmina!
Mi fissava con uno sguardo espressivo, quasi umano.
Io restituivo lo sguardo, completamente affascinato.
Non avevo affatto paura. Non riuscivo a pensare. Non
so quanto tempo passò prima che l'incanto si
rompesse e la lupa… se ne andasse.
Ma non fuggì. Abbassò lo sguardo e si girò, con un
movimento elegante, per inoltrarsi, senza fretta sul
sentiero. Voleva che la seguissi. Non trovai nulla
di strano nell'assecondarla.
Compresi fin da subito che non era un animale come
tanti altri, e che quell'incontro non era casuale.
Avevo finalmente incontrato la parte di me stesso
troppo a lungo soffocata. Le mie frequenti domande
circa il senso della vita raramente avevano trovato
una risposta negli ambienti che frequentavo e ora,
lasciandomi alle spalle, la "normalità" di tutti i
giorni, potevo concretamente sperimentare tante
risposte.. ne ero certo!
Confesso però che, per un lungo attimo, la
sensazione di terrore e paura mi strinse in una
morsa minacciosa, quasi gridandomi di tornare
indietro, di riabbracciare le mie lenzuola e di
risvegliarmi, come tutte le mattine, nel tepore
della mia camera e nel suono delle tante voci a me
familiari.... Quanti pensieri, troppi! Ormai la
decisione era presa, non si poteva tornare indietro!
Cominciai così a seguire la mia compagna di viaggio
lungo quel sentiero roccioso, sapendo che potevo
star tranquillo, perché non mi sarebbe accaduto
nulla di spiacevole.
Nel conforto di questo nuovo pensiero, mi arrivò,
all'improvviso, una specie di ricordo atavico,
vecchissimo: una battaglia cruenta, tra uomini e
lupi. Una battaglia risalente ad un tempo precedente
il Diluvio, quando tra uomini ed animali non v'era
ancora una distanza così grande come al giorno
d'oggi. A quei tempi così arcaici un uomo ed un lupo
potevano ancora comprendersi, pur parlando ognuno il
proprio linguaggio. Le due lingue infatti, quella
umana e quella lupesca, originate entrambe da una
lingua madre molto più arcaica, non erano ancora
così distanti.
Allora uomini e lupi si disputavano il possesso di
quella montagna, che ancora non aveva il nome che
tanto mi affascinava, ma uno in qualche modo simile.
Era però la stessa vetta che stavo salendo io nel
presente, molti eoni dopo quella battaglia di cui si
era ormai persa ogni traccia nel mondo fisico. La
stessa forma scura nella notte. La vetta verso cui
entrambi gli eserciti portavano rispetto.
Vi era allora un uomo chiamato Gal che si era
smarrito durante una caccia e vagava ancora nella
notte alla ricerca dei compagni. Quell'uomo era in
realtà poco più che un ragazzo, ma conosceva bene le
insidie della notte e del vento gelido e traditore
d'autunno. Camminava a passo spedito ma con calma,
senza farsi prendere dal panico. All'epoca non
v'erano sentieri e la strada andava trovata in mezzo
al bosco, prestando attenzione ai mille dettagli che
la fantasia primitiva trasformava in spiriti e
figure a noi ignote. Gal si trovò così,
all'improvviso, di fronte ad una lupa che pareva
materializzata dal nulla.
"Gal, che vieni dal mare, ascolta la voce dei Lupi,
non smarrire il ricordo, portalo con te e offrilo ai
figli della Terra; parla di noi, di questo tempo
magico, di un sogno che stai vivendo, di un sole che
presto tramonterà. Gli uomini smarriranno il
ricordo, avranno occhi senza luce, colori senza
suoni, amore senza doni. Perderanno la strada del
vecchio e del bambino che è in loro; non sapranno
più cosa pensa la terra su cui depositano i loro
umori. Tu sei Gal, il nostro umile signore, è nel
tuo volto che si specchia la speranza di far
tornare, un giorno, l'unione eterna tra uomini e
lupi. Cavalca il nostro sogno fino ai confini dei
tuoi mari limpidi. Noi dimoreremo sulla cima di
questa montagna, saremo i custodi di un linguaggio
antico che non morirà. Il sangue versato bagna il
nostro cuore e ci chiede di non parlare più, di
chiuderci nel silenzio, fino al giorno in cui, tu
Gal, ritornerai su questo sentiero e sarai pronto
per accogliere una nuova conoscenza."
Il vento aveva mosso appena i suoi capelli e quella
voce penetrata a forza nelle sue orecchie, forse era
solo la voce del vento; ma la lupa era davanti a
lui, non poteva negarsi la visione reale che stava
sperimentando. Capii all'improvviso che quella
storia mi riguardava. Compresi che in qualche modo
misterioso Gal ero io, e la lupa era la stessa di
quei tempi arcaici. Questa consapevolezza fu quasi
immediata e carica di mistero, come il ricordo della
leggenda della guerra tra lupi e uomini.
Nel frattempo però avevo perso di vista la mia lupa.
Cercai invano le sue tracce in giro. Una foresta
maestosa, che - avrei giurato - poco prima non
c'era, si chiudeva su di me intrecciando rami
robusti e fronde così fitte da nascondere le stelle.
Mi trovavo infatti nell'oscurità più completa,
simile al ventre di una creatura fantastica; non a
caso mi era entrata in testa quella strana idea, che
la lupa si fosse scomposta in molecole e tramutata
in un ambiente, ossia in una foresta impenetrabile.
Sentivo infatti ovunque l'odore selvatico della
lupa, omogeneo, sui fusti e sulle foglie che
formavano un tappeto frusciante ai miei piedi.
L'aria si era fatta più calda ed umida, piacevole
nonostante il senso di chiusura che avvertivo.
Quasi a tentoni mi mossi. Non avevo alcun punto di
riferimento, ma stranamente non avevo paura di
inciampare o di smarrire la strada. Era la
sensazione più strana che avessi mai sperimentato.
Dopo qualche tempo riuscii persino a vedere qualcosa
in quell'oscurità che non si era tuttavia diradata:
erano i miei occhi ad essersi adattati ad essi, a
farsi in qualche modo animaleschi. Era come se
anch'io avessi subito una metamorfosi.
Tra le arcate maestose, formate dall'intreccio dei
rami più alti, vidi venire verso di me la figura
inaspettata di una suora.
Lentamente cominciò a spogliarsi, sentendosi libera
nei movimenti fortemente sensuali. Quell'abito le
copriva, come una tela rigida, un corpo che nessun
uomo può descrivere con la sola visione; la mia
bocca non era in grado di proferire parole,
percepivo il suo odore acre in quel deserto umano e
anelavo alla sua bocca, come il bambino che ruggisce
la sua voglia di latte dal seno materno. Era
impossibile trattenere il battito di un cuore
strappato dai pregiudizi di una castrante moralità.
Cominciai a seminare la mia saliva su quella terra
selvaggia e mi resi conto che la metamorfosi mi
aveva rapito al vecchio me stesso. Avrei potuto
comprendere il messaggio dei lupi, solo nell'unione
completa con il loro spirito e la loro carne,
diventando parte di quella storia che ora potevo
scrivere nuovamente nel mio tempo. Non avevo ancora
incontrato la nudità di nessuna donna, ma la cercavo
in ogni disperata tentazione, attratto dal peccato e
dal suo nitido canto. Mi resi conto che la materia è
la parte vibrante di ogni essere a cui si da' forma
e nome. Così avvolto dalla veste lunare, spiavo
quella femminea nudità, vinto dal desiderio di
unirmi a lei. Con lo sguardo mi fece un cenno
d'invito. Senza rendermene quasi conto mi trovai
anch'io privo di vestiti, eppure senza alcuna
sensazione di freddo o di peccato. Ero un lupo
anch'io e al tempo stesso un uomo, anche se quella
metamorfosi era - lo sentivo chiaramente - solo
nella sua fase iniziale. Ci unimmo, carnalmente e
spiritualmente, in quella foresta calda e fragrante
come un utero materno. Attorno a noi le fronde
frusciavano delicate, e mi tornava alla mente
l'immagine del mare e delle onde. Anche le
sensazioni che provavo erano simili ad ondate, e non
c'era nulla di razionale in esse.
Il tempo si era fermato in quel giardino
meraviglioso. Era un mondo fatto esclusivamente di
odori e sensazioni tattili. Non esistevano più
confini - questo mi diceva la mia mente. Invece i
confini c'erano, anche se apparivano così lontani da
perdersi oltre l'orizzonte del pensiero.
Senza rendermene conto mi trovavo di nuovo in
cammino. Quel secondo incontro aveva lasciato in me
una sete di conoscenza che non avevo mai
sperimentato prima d'intraprendere quel viaggio.
L'oscurità era sempre densa ma anche, a modo suo,
netta e precisa. Era come un negativo. Puntini
luminosi, forse lucciole, ballavano nel buio. Quella
visione mi riportò all'infanzia. Il mio terzo
incontro fu, forse non a caso, con un bambino di
sette o otto anni.
Per quanto assurdo possa sembrare, riconobbi in lui
mio padre: in fondo ci avevano sempre detto che ci
somigliavamo come due gocce d'acqua. Aveva i capelli
bagnati, gli occhi limpidi, le mani strette in una
palla di terra che continuava ad impastare. Mi
sembrava triste, in quella sua espressione vuota,
senza parole, che io, in fondo, conoscevo bene. Non
so perché ebbi quella strana visione; era come se il
mio viaggio, tanto agognato, non poteva rendersi
manifesto totalmente, se prima non permettevo a me
stesso, l'incontro con Sergio bambino; con mio
padre. Raccolsi anch'io un po' di terra umida e
cominciai ad impastarla vicino a lui: non avevo mai
giocato con mio padre, perché nei nostri silenzi
c'era la rabbia di tanti conflitti mai risolti.
Forse tra le
sue mani c'era ancora la voglia di sentire il sapore
del gioco.
Quelle sue mani ora erano piccole e nude, non mi
facevano paura. Le raccolsi lentamente per
ascoltarle, in tutta la loro umile e potente
innocenza: ebbi la conferma che il momento era
reale. Avrei voluto piangere e abbracciarlo forte,
gridandogli la forza di un amore mai rivelato
nemmeno alla parte più intima di me stesso, ma non
lo feci, perché nel mio grido c'era anche odio e
disperazione e non volevo lasciare a quel bambino il
ricordo di un momento tanto impetuoso. Gli lasciai
le mani e lo invitai a correre insieme, come fanno
spesso quei semi volanti che si incontrano nell'aria
e, abbracciandosi, scelgono di condividere per un
po' il loro viaggio, in attesa di un terreno su cui
dolcemente posarsi per svelare la loro natura. Non
so dire per quanto
tempo durò la nostra corsa, perché in quei minuti
perfetti mi saziai profondamente di Emozioni e
regalai, felicemente, nuovi colori al mio umano
Spirito.
Arrestai infine la mia corsa e, voltandomi, mi
accorsi di aver perso di vista il bambino. Non
saprei dire se l'avevo superato o se si trovava
avanti a me; certo non riuscivo a vederlo da nessuna
parte. Mi trovavo ancora nella foresta, ma gli
alberi erano molto più radi e la luce riusciva a
filtrare rossastra. Era l'alba. Un nuovo sole nel
frattempo stava nascendo oltre le chiome possenti
degli alberi, dietro la montagna incantata.
Ormai riuscivo a distinguere tutti i dettagli, in
una luce che pare irreale. Era quel momento in cui
il giorno non è ancora giorno e la notte non è più
notte. Un momento di passaggio, in cui tutto era
sospeso. Anch'io mi sentivo sospeso e confuso più
che mai.
Continuai a camminare, senza fretta. Mi sentivo
l'animo leggero e giovane, freschissimo.
Ad un certo punto davanti a me vidi una figura
seduta su di un masso. Mi avvicinai con uno strano
presentimento. La figura era china su un libro, con
le gambe accavallate e lo sguardo assorto nella
lettura. Stentai un po' a riconoscere quella figura,
che pure mi era in qualche modo familiare. Solo
quando infine, dopo diversi minuti che lo osservavo,
alzò gli occhi, lo riconobbi: ero io. Avevo trovato
me stesso. Non mi ero riconosciuto subito perché ero
io a quindici anni ed ero un po' cambiato in
effetti, anche se ero sempre indubbiamente io. Che
stavo leggendo? Avevo una gran voglia di chiederlo,
ma la mia voce mi sarebbe sembrata troppo strana e
credo che sarei impazzito.
Anche me stesso più giovane stava zitto, ma non
sembrava avermi riconosciuto. Era naturale: io
conoscevo lui/me, ma io/lui non sapeva nulla di me.
Mi venne spontaneo, dopo un po' di tempo, dare una
sbirciata alla copertina del libro. Si trattava di
quel lungo racconto mai terminato che avevo
cominciato a scrivere in quarta elementare davanti
alla splendida copertina del "Sandokan alla
riscossa" di Salgari: da lì era nata l'idea del
viaggio, la voglia di incontrare popoli selvaggi, di
costruire capanne formate da rami intrecciati e
coperte da foglie di banano e di palma; di esplorare
le grandi isole malesi nella loro incredibile
ricchezza di animali e piante; ero acceso dal fuoco
ardente della creatività; in me nasceva la sana
passione per tutto ciò che era legato alla
conoscenza. Quanti ricordi in quel me stesso
adolescente e quanta energia nel rivedermi immerso
in una ricerca continua di libri da assaggiare e
divorare senza tregua!
Il ragazzo cominciò a sfogliare lentamente quel mio
vecchio lavoro di scrittura… e non solo; riconobbi
infatti anche il disegno da me realizzato per
rappresentare l'elefante su cui Phileas Fogg
percorse un tratto del suo "giro del mondo in
ottanta giorni" e poi il breve racconto in cui
descrivevo il personaggio di Martin Eden,
completamente assorto nella ricerca delle sue
origini davanti al calmo mare della California.
C'era poi l'immagine di Ulisse, bello e immortale
nella sua barba appena punteggiata; in lui avevo
creato il me stesso padrone del tempo e custode di
antichi segreti mai svelati ad orecchio umano… ad un
tratto lo sguardo del ragazzo si fece
incredibilmente serio, le sue mani scivolarono su
una pagina chiara, per niente usurata da alcun
contatto umano; in essa riuscì a leggere poche
parole tracciate con forza e senza alcun apparente
significato. Parole confuse, sparse in tutto lo
spazio della pagina: mare, casa, fratello, vita,
sole, terra, padre, lupo, donna, madre… Provai a
leggerle una dopo l'altra, di fretta, alzando il
tono della voce ad ogni "ripasso" dello stesso
termine e senza preoccuparmi della presenza del mio
giovane me stesso, così incredibilmente vicino e
distante allo stesso tempo. Non potevo più
rimandare, era giunto il momento di ultimare il mio
racconto: il viaggio intrapreso senza meta, alla
fine mi aveva condotto a ciò che era rimasto
incompiuto e che trovava la sua logica e naturale
conclusione nel termine di un ciclo; il che non era
a pensarci bene una reale conclusione dal momento
che, per definizione, un ciclo si ripete
all'infinito, ed ogni fine è un inizio e viceversa.
Il mio ciclo terreno avrebbe avuto anch'esso una
fine, un giorno, magari dopo milioni di altri sogni
e di viaggi, e mi avrebbe riportato esattamente al
punto di partenza, ma con un bagaglio di conoscenza
molto superiore che avrei trasmesso al ciclo
successivo, ed ogni volta sarebbe stata un'avventura
emozionante, senza fine.
Anche questo pensiero era contenuto nella storia che
stavo vivendo/scrivendo/leggendo, così come i miei
strani incontri - la lupa, la suora, il bambino, il
ragazzo - in cui avevo in realtà incontrato parti di
me stesso; perché la vita è sempre caotica ed
imprevedibile, eppure è al tempo stesso più
romanzesca di qualsiasi romanzo concepito da mente
umana.
Le parole erano state dette, le occasioni
assaporate, la foresta vissuta, la vita… beh, quella
scorreva incessante in me e in buona parte
inesplorata anche senza aver mai raggiunto
fisicamente quella vetta che mi ero prefisso.
Alzai gli occhi al cielo sereno, nei colori dolci
dell'aurora autunnale di fine millennio e pensai
semplicemente… che era bella.
Per mail tra Monterotondo - Firenze, 19 settembre
- 15 ottobre 2007
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