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Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi poetici inediti,
in lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai,
Dario De Lucia,
Amanda Nebiolo
Interviste
Intervista a Dario De
Lucia
a cura di Massimo
Acciai
Il Simposio di Poeti: Intervista a Giovanna
Salerno
a cura di Massimo
Acciai
Recensioni
Saggi
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Da bambino, quando si avvicinava
il tramonto, smettevo per un attimo di fare i
compiti o di giocare, e restavo per qualche attimo a
osservare mia madre, rapita a guardare il cielo che
si tingeva di rosa. Una luce calda invadeva la
stanza e il tempo sembrava fermarsi, come a rendere
più tragica l'agonia di un'altra giornata che non
voleva lasciarsi ingoiare dalla sera. E restavamo
tutti e due a osservare, per dei momenti che si
dilatavano, finché il buio non l'aveva vinta anche
quella volta.
- Ti rovinerai gli occhi, diceva allora mia madre
alzandosi per accendere la luce. Come ogni sera
quella frase banale, o un'altra simile, aveva il
potere di restituire al tempo il suo scorrere
normale: io finivo di studiare e mia madre
cominciava a preparare la cena per noi due.
Abitavamo infatti da soli, da quando mio padre ci
aveva lasciati ed era andato a vivere nella città
lontana, dalla quale ci separavano un'immensa
pianura deserta, dove ogni tanto si accampavano dei
pastori nomadi, e una catena di alte montagne,
talmente lontana dal nostro villaggio che riuscivamo
a vedere le nevi perenni sulle sue cime solo quando
il cielo era perfettamente limpido. Quando prima
della guerra era ancora possibile viaggiare grazie
alla corriera che passava una volta a settimana, un
giorno mia madre chiese alla nostra vicina di badare
a me per qualche tempo e andò in città per tentare
di convincere mio padre a ritornare da noi. Ma tornò
senza essere riuscita a trovarlo: fu così che
riprendemmo a vivere da soli nella casa del nostro
piccolo villaggio che da quando è scoppiata la
guerra è completamente isolato dalla città,
circondato da una pianura che sembra sempre più
deserta da quando i pastori nomadi non osano più
percorrerla e si sono trasferiti ad est.
Quando dopo cena andavo a dormire e mia madre mi
rimboccava le coperte, invece di farmi raccontare
una favola, a volte le chiedevo di parlarmi di come
era fatta la città. Lei cominciava a raccontarmi che
al posto delle poche case del nostro villaggio,
distribuite attorno ad una chiesetta disadorna,
c'erano grandi viali e grandi piazze con chiese
enormi costruite da più di mille anni e palazzi
altissimi in cui vivevano tante famiglie, invece
delle poche decine di abitanti del nostro villaggio.
Mi raccontava che c'erano delle scuole dove i
bambini potevano giocare e studiare insieme ad altri
bambini, contrariamente a me che dovevo giocare e
studiare da solo perché non c'erano altri bambini, e
che nei giorni di festa si poteva andare a
passeggiare nei grandi parchi con prati verdi e alti
alberi secolari. La cosa più affascinante era
cercare di immaginare quella enorme quantità di
persone che si poteva incontrare per le strade, e io
cercavo di dare ad ognuno di quegli uomini e donne,
un volto, una voce, un carattere, e fantasticavo
sulle vite che inventavo per loro.
Col passare degli anni mia madre diventava sempre
più triste e soffriva sempre di più per il nostro
isolamento e per la mancanza di mio padre. Ormai gli
abitanti più vecchi del nostro villaggio, gli unici
che si ricordavano ancora di quanto era stato
fiorente un tempo, e della vivacità che vi portavano
le ricche carovane di passaggio, cominciavano a
lasciarci, e noi restavamo sempre più in pochi. Non
c'era speranza che qualcuno decidesse di trasferirsi
qui da noi, con la guerra era impossibile viaggiare,
e anche se fosse stato possibile nessuno avrebbe mai
pensato di venirvi ad abitare, vista la miseria che
vi regnava.
Orami avevo quasi diciassette anni, ero l'abitante
più giovane del villaggio, e mia madre, quando al
pomeriggio sedevamo insieme nel nostro salotto, io a
studiare, lei a cucire o a ricamare, cominciava
sempre più spesso, e sempre con più malinconia, a
parlarmi della città.
Il tempo passava e mia madre diventava sempre più
triste perché continuava a pensare a tutto quello
che aveva perso. In me invece, cominciava a farsi
strada ogni giorno di più la decisione di lasciare
presto il villaggio per poter andare a vivere nella
città. Ci vollero tuttavia parecchi mesi prima di
riuscire a convincere mia madre a lasciarmi andar
via, e anche per riuscire a convincere quella parte
di me stesso che aveva paura di affrontare un
viaggio così lungo, su delle strade che nessuno da
molto tempo non aveva più percorso, talmente erano
diventate insicure a causa della guerra.
Era una mattina d'aprile quando finalmente partii.
Quell'anno la primavera ci aveva dato molte giornate
di bel tempo, ma quel giorno sembrava che l'inverno
non fosse mai finito: tirava un vento molto forte e
freddo e grigi nuvoloni che promettevano pioggia si
stagliavano all'orizzonte impedendomi di guardare i
monti che mi separavano dalla città. Comunque non
rimandai la mia partenza, avevo già deciso che
sarebbe stato quello e non un altro il giorno in cui
la mia vita sarebbe cambiata. Salutai quindi mia
madre senza sapere se l'avrei mai rivista, e mi
incamminai verso la città. Camminai fino al tramonto
senza mai voltarmi indietro e quando fece buio cenai
con delle provviste che mi ero portato da casa.
Passai quella notte all'aperto, nel mio sacco a
pelo, ma non riuscii a dormire, un po' per
l'eccitazione di aver cominciato la mia avventura,
un po' per un vago timore che mi incutevano tutte le
cose ignote che mi aspettavano e un po' perché me ne
stavo a fantasticare sul mio futuro, affascinato
dalle stelle che lentamente avevano preso il posto
delle nuvole della giornata appena trascorsa.
Lentamente però mi addormentai e mi risvegliai
quando ormai era già giorno fatto. Mi rimisi in
marcia e continuai a camminare per giorni e giorni,
sempre in direzione delle montagne, che sapevo
separami dalla città. Lentamente mi accorgevo che le
mie provviste stavano per terminare e che mancava
ancora molto alla mia meta, o per lo meno a qualche
villaggio in cui potermi fermare a comprare del
cibo.
Un giorno, non ricordavo più da quanto tempo fossi
partito da casa, mi ritrovai senza più nulla da
mangiare o da bere. Ma continuai ugualmente a
camminare e anche se sapevo benissimo che in quelle
condizioni non sarei mai riuscito ad arrivare da
nessuna parte, qualcosa dentro di me mi dava la
certezza che avrei vissuto ancora per molto tempo.
Ma dopo aver continuato per tre giorni a camminare
senza né bere né mangiare, la mia vista
improvvisamente cominciò ad annebbiarsi e ad un
tratto sentii che le gambe smettevano di sostenermi
mentre tutto si faceva buio e silenzioso.
Mi risvegliai nella casa di un mercante che, come mi
spiegarono in seguito, mi aveva trovato svenuto
mentre rientrava da un viaggio: era infatti uno dei
pochi coraggiosi a spostarsi ancora nonostante la
guerra, alla ricerca di merci da acquistare e poi
rivendere nei pochi villaggi sparsi per il deserto.
Grazie alle cure che ricevetti dalla sua famiglia mi
ripresi in fretta e assieme alla famiglia del
mercante che mi ospitava decisi che sarei rimasto
finché il mercante, che si riproponeva di fare un
altro viaggio dopo qualche mese, mi avrebbe dato un
passaggio verso la città. Per non dipendere
totalmente dai miei ospiti e per non restare del
tutto inattivo, cominciai a lavorare nella bottega
del mercante.
Il mio lavoro consisteva nel tenere in ordine il
magazzino e nel fare in modo che non mancasse mai
nulla sugli scaffali dell'emporio, inoltre quando
c'erano tanti clienti aiutavo la moglie del mercante
a servirli. Ogni giorno mi vedevo passare davanti la
quasi totalità degli abitanti che si abituarono
presto al nuovo venditore. Ma sebbene ormai
cominciassi a conoscere tanti particolari della vita
che conducevano, la loro esistenza mi era del tutto
indifferente, talmente ero ancora preso dal
desiderio di raggiungere un giorno la città, ed
occupato a contare i giorni che mi separavano dal
nuovo viaggio. Pensavo di conoscere ormai tutti,
quando invece una domenica pomeriggio, mentre
stavamo per cominciare a prendere il the, la figlia
del mercante entrò accompagnata da un'altra ragazza.
Quando ci presentarono seppi che la ragazza si
chiamava Rebecca e era una compagna di studi della
figlia del mercante. Le due ragazze si erano
conosciute ancora bambine ed erano cresciute insieme
senza separarsi quasi mai. Ancora adesso erano molto
unite e passavano molto tempo insieme, ora nella
casa dell'una, ora in quella dell'altra.
Intanto, le notizie che arrivavano dal fronte non
erano affatto buone: la guerra diventava sempre più
dura, il nemico riportava sempre più spesso delle
nuove vittorie, e gli spostamenti diventavano sempre
più rischiosi. Il mercante rinviava di giorno in
giorno e di settimana in settimana la data di una
nuova partenza e io che avevo conosciuto le
difficoltà del viaggiare da soli per il deserto, non
avevo il coraggio di partire senza di lui.
Passavo quindi delle giornate nella più cupa
depressione, convinto che non sarei mai riuscito ad
arrivare alla città e che avrei quindi fallito
l'unico obiettivo che mi ero posto nella vita. Anche
in casa tutti erano alquanto cupi, senza la
possibilità di viaggiare gli affari del mercante
cominciavano ad andar sempre peggio e la famiglia
temeva di piombare nella più cupa miseria, come era
già successo ad altre famiglie un tempo prospere.
Le uniche a conservare la serenità erano Rebecca e
la figlia del mercante, e grazie al loro ottimismo
anche noi riuscivamo per un attimo a dimenticare i
nostri problemi.
Il villaggio non offriva certo molte distrazioni,
erano ormai lontani i tempi i cui alle famiglie più
ricche della zona, tra le quali figurava quella del
mercante, bastava il minimo pretesto per organizzare
delle feste durante le quali si ballava e si
gustavano cibi prelibati e vini pregiati. Comunque
le due ragazze, sarà dipeso dal fatto che non
avevano conosciuto quei tempi, riuscivano ad essere
felici con poco e la gioia che si irradiava dai loro
volti dopo un pomeriggio trascorso insieme a
chiacchierare e a scherzare insieme, riusciva a
regalarci un sorriso e a farci dimenticare le
cattive notizie che ci giungevano.
Lentamente, dal momento che purtroppo c'erano sempre
meno clienti e il mio tempo libero aumentava,
cominciai a passare sempre più tempo in compagnia
delle due ragazze. Col passare delle settimane mi
ritrovai ad attendere con ansia l'ora in cui sapevo
sarebbe arrivata Rebecca, e fin dal momento del mio
risveglio, sapevo che la giornata che mi aspettava
aveva senso solo perché tra tutte le ore che la
componevano, c'erano quelle che mi permettevano di
vedere Rebecca: ormai avevo bisogno di lei per poter
star bene.
L'emozione che mi capitava di provare se la
incontravo per caso, all'improvviso, senza
attenderla, era così intensa che mi faceva perfino
star male, perché pensavo che il mio cuore non
avrebbe resistito a tanta intensa felicità. Ma il
mio cuore resisteva sempre, e per nulla al mondo
avrei mai rinunciato a provare questa emozione.
Eppure c'era qualcosa che mi avrebbe fatto
rinunciare: nonostante le possibilità che la guerra
finisse fossero sempre di meno, io continuavo sempre
a sperare che un giorno sarei finalmente riuscito a
partire e ad arrivare alla città.
Passai un anno in questo stato d'animo, poi
finalmente una mattina vedemmo arrivare al nostro
villaggio uno straniero, veniva dal fronte e aveva
ricevuto il compito di diffondere la notizia che
finalmente la guerra era finita. Restammo tutti
attoniti, nessuno di noi riusciva a credere che dopo
più di due decenni si fosse finalmente arrivati alla
pace tanto desiderata. Ma lo straniero portava con
sé una copia dell'armistizio, e quindi all'iniziale
sbalordimento subentrò la gioia di poter finalmente
ricominciare a vivere una vita normale.
Dopo qualche decina di giorni il mercante aveva già
finito tutti i preparativi per il nuovo viaggio e io
mi apprestai a seguirlo felice di poter finalmente
raggiungere il mio obiettivo.
Lasciai quindi per sempre il villaggio dove avevo
vissuto per più di un anno e mi avviai verso la vita
che avevo sempre desiderato. Dopo tre giorni di
cammino il mercante arrivò al villaggio dove doveva
fermarsi per i suoi affari e io decisi di continuare
da solo: mi mancavano solo un paio di giorni di
marcia, e con le provviste che il mio ospite aveva
voluto che portassi con me, sapevo che non avrei
avuto nessun problema.
Camminai con frenesia, e la voglia di arrivare era
così forte da rendermi quasi cieco impedendomi di
vedere il deserto che lentamente lasciava il posto
ad una vegetazione che si faceva sempre più
lussureggiante. Finalmente cominciai a scorgere le
mura della città e affrettai il passo, ormai certo
di essere finalmente arrivato.
Ma appena arrivai alla porta della città capii
quanto cara ci era costata la pace: dei grandi
viali, degli eleganti palazzi e delle maestose
chiese di cui mi aveva tanto a lungo parlato mia
madre, restavano pochi resti, miracolosamente
scampati alle fiamme. Quel giorno capii anche che
avevo sognato invano.
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