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Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi poetici inediti,
in lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai,
Dario De Lucia,
Amanda Nebiolo
Interviste
Intervista a Dario De
Lucia
a cura di Massimo
Acciai
Il Simposio di Poeti: Intervista a Giovanna
Salerno
a cura di Massimo
Acciai
Recensioni
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"The last that ever she saw him
carried away…"
Ogni volta che cercavo di capire di quale celebre
canzone di trattava - ce l'avevo sempre sulla punta
della lingua! - la musica cessava nel momento in cui
la mia amica Rina rispondeva al cellulare, e addio
titolo.
Le avevo chiesto una volta perché aveva scelto
quella suoneria. Lei mi aveva dato di "curioso come
una cimice" e poi eravamo scoppiati a ridere come
nostro solito. Mi ero incaponito nell'indovinare
quel motivetto cantato da una voce femminile che
aveva qualcosa di onirico. Naturalmente avevo
pregato la mia amica di non rivelarmelo, volevo
indovinarlo da solo.
La mia amica era una ragazza molto carina ma, per
quanto a volte ci scherzassimo su, non mi sentivo
attratto da lei. La nostra amicizia era del tipo
puro e raro che capita talvolta tra persone di sesso
diverso. Ci capivamo al volo, senza molte parole.
Quel pomeriggio stavamo prendendo un caffè nel
centro commerciale di ***. Solita folla affaccendata
per gli acquisti e solite facce stravolte ai
tavolini. La pioggia che batteva violenta sulla
vetrata sopra le nostre teste sembrava aumentare la
frenesia delle persone. C'era qualcosa di elettrico
nell'aria, insieme a qualcosa di più sottile che non
saprei definire se non come un ché di "diverso"
dagli altri temporali estivi che ci avevano sorpreso
in passato. Ci eravamo rifugiati al bar durante uno
di quegli acquazzoni, con tuoni e fulmini, che
rendono sopportabile una stagione deprimente come
l'estate. La pioggia e la frescura che portava con
sé ci mettevano entrambi di buonumore. Ridevamo come
matti mentre correvamo al riparo, insieme ad altre
persone sbuffanti e sudate. Ci sedemmo e prendemmo
un caffè e un mascarpone, se non ricordo male, ma
questo non ha molta importanza. Alcuni ricordi di
quel pomeriggio sono molto nitidi, per quanto
insignificanti, altri meno.
Stavamo chiacchierando quando mi suonò il cellulare.
Non ricordo chi fosse, non era importante. Quando
riattaccai vidi Rina che cercava qualcosa nella
borsetta.
"Cavoli, non riesco a trovare il cellulare" disse,
scocciata "l'avrò lasciato a casa".
"Perché non provi a chiamarti col mio?" le dissi,
porgendogli il cellulare "Così se è in borsa lo
trovi subito".
Quante volte avevo ritrovato così l'odiato-amato
oggetto! Qualcosa me lo faceva lasciare
immancabilmente in giro per casa ed era inutile
cercarlo; prendevo la cornetta del fisso e mi
chiamavo. La suoneria mi guidava altrettanto
immancabilmente in qualche angolo impensabile della
casa. La mia era una suoneria piuttosto banale, ma a
me andava bene così. Per scherzo dicevo che l'avrei
cambiata solo se avessi trovato qualcosa di
originale come, che so, l'inno esperantista o il
"Trillo del diavolo" di Tartini. Ma neanche questo è
importante per il fatto che sto raccontando.
Insomma, Rina prese il mio cellulare, fece il numero
e rimase in attesa. Anche quella volta tendevo
l'orecchio per ascoltare la famigerata suoneria, ma
invano. Dopo qualche attimo notai la sua espressione
stupita, inquieta, terrorizzata.
Qualcuno aveva risposto.
Vedere la mia amica così sconvolta mi fece una
strana impressione. Riattaccò dopo qualche istante
senza dire una parola. Rimase silenziosa, a
fissarmi, per non so quanto tempo, stringendomi le
mani. Le sue erano gelide. Era molto pallida.
"Che succede?" le chiesi, non so quante volte.
Attorno a noi la gente proseguiva indifferente i
propri dialoghi.
Strinsi anch'io le sue mani, per riscaldarle un po'
e per farle coraggio. Il suo sguardo era vuoto.
Stava tremando.
"Ti senti male?".
Iniziavo a preoccuparmi sul serio.
"Non è nulla" disse cercando di riprendere il
controllo "Davvero, ora mi passa".
Non ero convinto. Le chiesi se voleva bere qualcosa,
magari un tè o qualcosa di più forte.
"Un Bayles"
Le portai un bicchierino del liquore. Lo vuotò in un
attimo.
Più tardi, mentre la riaccompagnavo a casa in
macchina, si decise infine a parlare.
La pioggia continuava a battere furiosa
sull'abitacolo. Sembrava una bufera invernale, fui
costretto ad accendere il riscaldamento in macchina.
La sera era giunta con molto anticipo.
"Devo aver fatto un altro numero" disse, quasi
cercando di convincere se stessa.
"Vuoi riprovare a chiamare?" le chiesi.
"No!" quasi urlò poi, riabbassando la voce "Non mi
sento molto bene, sono un po' stanca…"
Non aggiunsi altro.
Qualche giorno dopo ci ritrovammo al corso serale di
doppiaggio che seguivamo insieme. Il corso si teneva
in un oscuro palazzo in periferia, dove aveva sede
un'associazione che organizzava, tra le altre cose,
corsi di musica, doppiaggio e altro. Era il tempo in
cui stavamo cercando entrambi lavoro, e nell'attesa
di trovarlo ci eravamo iscritti a quel corso con la
speranza di aumentare le nostre possibilità.
Entrò in aula in ritardo. Si sedette cercando di non
dare nell'occhio, ma vidi subito che c'era qualcosa
che non andava. Aveva lo sguardo perso nel nulla,
era chiaro che non stava ascoltando una parola di
quello che diceva l'insegnante. Al termine della
lezione mi avvicinai a lei. In un primo momento
sembrò sfuggire da me, poi mi si gettò tra le
braccia e cominciò a piangere. La lasciai sfogare.
Qualche minuto dopo si calmò e mi chiese scusa.
"Ma di che?" risposi abbracciandola "Dimmi piuttosto
che succede"
Lei esitava. Pareva cercasse le parole per
descrivere ciò che non poteva essere descritto,
senza almeno essere presa per matta. Ebbi questa
precisa impressione, ancora prima che mi dicesse
qualcosa. Ci eravamo sempre capiti senza molte
parole.
"Non riesco a trovare il mio cellulare" mi disse
infine.
"Dai, non è così grave…"
"Ne ho comprato uno nuovo"
Seguirono altri attimi di silenzio. Aspettai con
pazienza che proseguisse, anche quella situazione
stava facendo ammattire anche me.
"Ho riprovato a rifare il vecchio numero" proseguì
con voce strozzata "e…"
Ricominciò a piangere.
"Oddio, che sta succedendo?? Non sono pazza!
Credimi, non lo sono!!"
Il tono isterico sembrava davvero smentire le sue
parole, ma la conoscevo troppo bene per dubitare
anche solo un po' della sua sanità mentale. La mia
amica Rina era forse la persona più equilibrata e
controllata che conoscevo. Eppure non sapevo cosa
pensare.
"Mi ha risposto qualcuno…"
"Devono averti preso il cellulare mentre eri
distratta…"
"No!" urlò "Non capisci: quel qualcuno AVEVA LA MIA
VOCE!"
Ecco, questa proprio non me l'aspettavo.
Rimasi muto.
"Rina, alle volte per telefono la voce può cambiare,
lo sai, specie con un cellulare, quindi tutto questo
è normale, voglio dire, una certa somiglianza nella
voce", cercai di tranquillizzare la mia amica, ma in
realtà, anche se non sapevo bene il perché, non mi
sentivo per niente a mio agio neanche io.
"Allora non hai capito, la voce non era uguale alla
mia, ma era la mia!" Vidi la mia amica allo stremo
della forza morale, sembrava sul punto di crollare
da un momento all'altro. Non riuscii a trovare una
risposta convincente da darle, eccetto, e quasi mi
vergognai a pensarlo, che la sua salute mentale
fosse compromessa in qualche modo. L'unica cosa
sensata che mi venne in mente di dire fu questa
"Andiamocene via".
Rina seguì questa mia esortazione come fosse un
ordine, con la massima velocità e convinzione, come
se avessi interpretato il suo pensiero alla lettera.
La portai fin sotto casa. Per la prima volta,
vedendola in quello stato, con gli occhi lucidi,
piccola, indifesa, nei confronti di qualcosa più
grande di lei, un qualcosa verso cui nessuno di noi
due sembrava potesse fare niente, per la prima
volta, sentii che provavo qualcosa che andava oltre
il semplice affetto. Non potevo dire di esserne
innamorato, e neanche volevo pensarlo, eppure
qualcosa dentro di me era cambiato, in una maniera
che mai avrei ritenuto possibile.
"Promettimi che per qualsiasi cosa mi chiamerai" le
dissi dolcemente, con appena un accenno di lucido
nei miei occhi.
"Promesso" e mi baciò sulla guancia. Mentre stava
per chiudere lo sportello, la esortati un'ultima
volta: "Non pensarci, vedrai che è una cosa da
nulla", mi sorrise appena, richiuse lo sportello e
fu inghiottita dal grande portone del suo palazzo,
dove viveva sola al quinto piano.
Mi avviai verso casa. Non feci la strada più breve,
non avevo voglia di rientrare nel mio appartamento
per essere assalito dalla solitudine e dai miei
pensieri. Passai lungo l'Arno. Vidi quel fiume
risplendere vigorosamente, severo e curioso sotto
una luna che appariva bonaria. Appariva e basta. Già
sapevo che quella notte non avrei chiuso occhio. Il
mio intuito aveva ragione.
Beep - beep. Beep - beep. Beep - beep. Beep…
Cosa ca…
Il cellulare. Ma che ora era?
Beep - beep.
Maledetta suoneria. Beep - beep. Allungai la mano,
vidi il display, era Rina.
"Pronto, Rina? Tutto ok?"
"No! Niente è ok! Proprio niente!!" stava piangendo.
"Rina, ma che succede, ancora la storia della voce?"
mi sentivo distrutto, annientato nell'anima, avrei
voluto morire, piuttosto che vedere la mia amica
ridotta in quello stato, in uno stato da parete
imbottita. Sì, desideravo ardentemente la morte.
"Non è solo la mia voce, quella persona sa delle
cose su di me… troppo… cose che non è possibile
sapere… ", proseguì Rina tra un miscuglio di pianto
isterico e di urla.
"Rina, aspettami lì, a casa tua, arrivo subito,
resta lì!" sembravo impazzito anch'io da come stavo
berciando.
"Ok".
Presi al volo le chiavi della macchina e mi avviai
verso l'uscita, per poi accorgermi, non appena aprii
la porta di casa, che avevo indosso ancora pantofole
e pigiama. Un diluvio di imprecazioni si impossessò
di me. In tre secondi mi vestii, non so come, non so
con quale criterio o logica, fatto sta che spiccai
il volo verso la mia Clio parcheggiata sulle
strisce, misi in moto e mi avviai verso casa di
Rina, nella città ancora avvolta nelle tenebre. Le
cose non andavano affatto bene, no, specie ora che
avevo capito una cosa, di cui avevo la certezza
assoluta: mi ero innamorato di Rina.
Trovai la mia amica sul letto, un cuscino sopra la
sua testa.
Per fortuna avevo un duplicato delle sue chiavi,
come lei ne aveva uno delle mie. Neanche provai a
suonare, non potevo aspettare. "Rina?"
"Vattene! Vai via!"
"Rina, ma che ti succede? Mi stai mettendo paura,
Rina?!"
"Vattene ti ho detto! Tu non sei un mio amico, vuoi
solo scoparmi come tutti gli altri, ecco qual è il
tuo scopo, sparisci!"
Il cuore mi si frantumò, precipitò in qualche abisso
inesplorato dell'anima. La testa mi faceva un male
boia cane, sentivo che stavo per dare di stomaco. Mi
avviai in cucina, delicatamente mi misi seduto su
una sedia, come fossi un vecchio infermo.
Le mani mi tremavano, tutto il mio corpo era in
preda ad un trasalimento continuo. Avevo inghiottito
un iceberg, e mi era rimasto incastrato tra la gola
e la bocca dello stomaco.
All'improvviso, come galvanizzato da una rivelazione
a lungo attesa, presi il mio cellulare e composi il
vecchio numero di Rina, che ancora avevo in memoria.
Il pianto soffocato di Rina copriva il "beep" dei
tasti pigiati. Chiusi la porta della cucina mentre
il telefono squillava dall'altra parte. Credo che il
cuore mi si fermò un paio di volte. Una di quelle fu
quando dall'altra parte mi rispose una voce, quella
di Rina.
"Pronto?"
La prima cosa che mi venne in mente di dire fu
questa: "Insomma la vogliamo smettere con questi
scherzi del cavolo, qui c'è una persona che sta
male", poi, preso da un attimo di dubbio, posai il
cellulare sul tavolo, e in punta di piedi mi diressi
verso la camera da letto, dove trovai Rina ancora
sdraiata, ma ora non aveva più la testa coperta dal
cuscino, e i suoi occhi erano chiusi. Si era
addormentata. Rimossi quindi questo dubbio dalla mia
mente. Non era lei, non era una messinscena, e non
era pazza.
Tornai in cucina, richiusi la porta, ripresi in mano
il cellulare. La persona era ancora in linea.
"Chi sei?" domandai. Ma temevo già la risposta.
"Sono Rina, chi dovrei essere?"
"La smetta, qui non c'è proprio nessuno che sta
ridendo a crepapelle, a parte forse lei, e infatti
credo lei sia disgustosa come essere umano".
"Perché dubiti che io sia Rina?", sembrava offesa.
Già, perché? Presto detto mi dissi, non sono uno
scemo.
"Mi dica, brutta puttana, cosa ho regalato a Rina o,
mi scusi, cosa le ho regalato lo scorso natale?"
"Un posacenere a forma di paperella", fu la laconica
risposta. Una sua amica, poteva averlo detto ad una
sua amica, questa era una domanda troppo facile,
altri avrebbero potuto sapere la risposta. Dovevo
penare a qualcosa di diverso per smascherare questa
bugiarda maledetta. Un qualcosa di unico,
impossibile per qualsiasi mortale da conoscere. Mi
venne subito in mente.
"Cosa… che cosa… " non riuscivo a pronunciare le
parole, mi sentivo pazzo e mortificato solo a
ricordarle "cosa mi hai detto… poco fa… e dove… me
l'hai detto…"
" 'Vattene ti ho detto! Tu non sei un mio amico,
vuoi solo scoparmi come tutti gli altri, ecco qual è
il tuo scopo, sparisci!' e stavo sul letto in camera
mia."
Il cellulare mi cadde dalle mani, e si frantumò al
suolo, e con lui la mia anima. A fatica ripresi in
mano quell'affare malvagio e demoniaco, con la
batteria all'aria, con il display scheggiato e i
tasti schizzati fuori, ma ancora funzionante, e mi
accorsi che quella voce mi stava parlando ancora…
"… Ero immatura, ero solo una ragazzina, sì, anche
tu eri un ragazzino, e infatti non te ne faccio una
colpa, sedici anni tutti e due! Così, solo per
gioco! Porca miseria, due bambini eravamo… però
l'aborto sono solo io quella che l'ha subìto, ma
anche qui non te ne faccio una colpa… poi, col
passare degli anni, entrambi abbiamo rimosso questa
spiacevole circostanza, incredibilmente direi io,
anzi, forse proprio questo sciagurato evento oramai
così lontano ci ha unito in maniera così forte,
siamo risorti dalla nostra sofferenza, e siamo stati
sempre dei veri amici, ammesso che possa esistere
l'amicizia tra uomo e donna…"
Mentre ascoltavo quelle Parole d'Amianto, tra un
pianto represso e un dolore penetrante
all'intestino, mi diressi nuovamente verso la camera
di Rina. Dormiva ancora. L'ultimo bagliore, l'ultima
speranza a cui mi ero nuovamente e cocciutamente
aggrappato di uno scherzo di pessimo gusto, svanì
come il miraggio di una felicità che mai più avrei
conosciuto.
"… siamo andati avanti, senza mai guardare al
passato. Ma adesso, che sento che i tuoi sentimenti
sono cambiati, questo impone una scelta, un
rinnovamento nel nostro rapporto, che dovrà essere
impostato su basi totalmente differenti…"
Mi avvicinai al corpo di Rina, al corpo senza vita
della mia cara e vecchia amica. Le accarezzai la
fronte, bagnandola con le mie lacrime amare. Davanti
a me, si sarebbe presentata una Rina che mai avevo
conosciuto.
Il mio amore, questo amore neonato e immaturo, aveva
ucciso per sempre la mia amicizia con Rina, per
sempre.
L'amore aveva ucciso…
Dall'altra parte, la voce continuava a parlare…
All'improvviso, il cellulare di Rina, quello nuovo,
trillò dal comodino, con la stessa suoneria del
precedente… quella melodia…
"The last that ever she saw him carried away…"
Ancora non riuscivo a ricordare il titolo di quella
canzone…
Presi in mano il cellulare, e guardai il mio numero
luccicare dal display…
Firenze, 24 ottobre 2007 - Ardea, 6 novembre 2007
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