|
|
Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a chiunque voglia
inviare testi poetici inediti, in lingua diversa
dall'italiano, purché rispettino i più
elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai,
Manuela Léa Orita,
Iuri Lombardi,
Tetiana Anatolivna
Vinnik
Recensioni
In questo numero:
- "L'amore ai tempi del Cavaliere" di
Francesco Vico
- "I Figli del serpente" di G.L.Barone
- "Il confessionale e l'apostolato" di Liliana
Ugolini
- "Venite Venite B-52" di Sandro Veronesi,
recensione di Stefano Gecchele
- "L'Oasi e la neve" di Monica Osnato,
recensione di Simonetta De Bartolo
- "L'amore arreso" di Zhang Ailing, recensione
di Rita Barbieri [pdf]
- "Belfine" di Paolo Ragni
- "L'ultima estate a Famagosta" di Paolo
Ragni, nota di Massimo Acciai
- "Adventurae" di Paolo Ragni
- "Racconti persi e dispersi" di Paolo Ragni
Incontri nel giardino
autunnale
Articoli
Letteratura per la Storia
|
|
Quando mi comunicarono che la
sorella più piccola della famiglia Giovanardi si era
appena suicidata, la notizia mi gelò il sangue
sebbene non la conoscessi che di vista. I Giovanardi
erano una famiglia abbastanza numerosa che era
venuta a vivere nella mia città in seguito
all'assunzione del padre presso un nuovo posto di
lavoro. Si trattava di una multinazionale che
produceva impalcature da imballaggio e bancali in
legno. Un'industria molto fiorente ed importante per
la nostra città. Almeno un esponente di ciascuna
famiglia lavorava o aveva lavorato in quell'industria.
Nella mia famiglia, mio zio aveva lavorato per un
periodo di tre anni presso l'azienda, poi si era
licenziato perché aveva sposato una donna, mia zia,
di un altro paese ed erano andati a vivere lontano
da qui. L'industria in questione rappresentava un
fiore all'occhiello della produzione economica
regionale ed era pertanto molto rispettata anche dai
vari gruppi sindacali che, solo raramente, avevano
avuto pretesti per scioperare.
La fabbrica che lavorava il legname si trovava in
prossimità dell'antico ponte romano che permetteva
l'ingresso alla città. Al di sotto del viadotto
alcune famiglie di rom, in roulotte e in misere
tende, avevano costruito un accampamento abusivo che
a prima vista dava l'impressione si trattasse di una
piccola guarnigione militare che si era trincerata
sottoterra per far fronte all'attacco nemico. Il
sindaco aveva più volte predisposto lo sgombero di
quelle catapecchie ma nel giro di poco tempo erano
ritornate a essere abitate. La presenza di rom e di
quel campo di residenza abusivo non significava
delinquenza e marginalità nella città dato che i rom
erano perfettamente integrati alla comunità e alcuni
di loro possedevano addirittura dei lavori in città.
Alla fine l'amministrazione comunale di
centro-sinistra retta dal sindaco Minniti aveva
fatto calare l'attenzione sulla questione e, di
fatto, si era tacitamente regolarizzata quella
situazione.
Il ponte romano al di là del quale si stagliavano i
vasti stabilimenti nei quali veniva lavorato
meticolosamente il legno, rappresentava una delle
principali attrattive turistiche della gente che si
recava a visitare la mia città. Oltre ad una vecchia
chiesa, nella quale secondo la storia (o la
leggenda) era conservata un'importante reliquia di
San Sebastiano, la città non offriva molti punti
d'interesse. Il ponte romano, a cui molti storici
dell'arte avevano fatto riferimento nelle loro
opere, era stato costruito con l'elaborata tecnica
dei romani, in prossimità di un acquedotto che
forniva acqua non solo alla città, ma a tutta la
zona limitrofe. Seppure era abbastanza rovinato e
alcuni costoni di roccia che si trovavano alla base
erano profondamente sfaldati, il ponte rappresentava
un'epoca di splendore e di floridezza, oramai
perduta.
La vita del paese si raccoglieva per lo più attorno
ad alcuni circoli politici dichiaratamente di
sinistra e retti da alcuni signori anziani, panciuti
e dai lunghi baffi bianchi e in prossimità di pochi
bar dove i giovani del paese si riunivano.
La morte di Mirella Giovanardi aveva campeggiato
come notizia di cronaca sulle locandine dei vari
giornalai per più di una settimana. Quasi che i
giornalai considerassero una mancanza di rispetto
nei confronti della famiglia togliere l'annuncio
doloroso di quella morte.
Nessuno era stato in grado di chiarire le dinamiche
di quella morte. Ciò che era chiaro a tutti era che
si era trattato di un suicidio. La gente del posto
avanzò le più varie motivazioni del suicidio,
attribuendo spesso colpa al padre della ragazza,
ritenuto una persona troppo rigida e poco remissiva.
Secondo altri la ragazza soffriva di disturbi
psichiatrici gravi e si trovava in un momento di
depressione, seppure era praticamente impossibile
congetturare l'origine del suo malessere. I
quotidiani della zona che riportavano l'insano gesto
della ragazza si limitavano a dare delle
interpretazioni molto vaghe concludendo che non
c'era niente di certo e che tutto poteva essere
accaduto nella mente della povera ragazza.
La notizia della sua morte scosse profondamente sia
noi ragazzi che difficilmente riuscivamo a
comprendere il significato della parola 'suicidio' e
anche i nostri genitori che, a partire da quel
momento, intensificarono la loro sorveglianza sulle
nostre attività pomeridiane, dimostrandosi attenti a
noi quasi in maniera ossessiva e cercando di farci
parlare quando eravamo giù di corda. Il motivo del
loro repentino cambio d'atteggiamento dovette essere
motivato dalla loro contagiosa paura che noi, i loro
figli, avremmo potuto emulare il gesto di Mirella.
Io non volevo morire né ci avevo mai pensato troppo
seriamente. Normalmente in famiglia sentivo parlare
i miei genitori di gente che moriva e loro che
andavano ai rispettivi funerali. Si trattava quasi
sempre di gente anziana tanto che formulai nella mia
mente che la morte riguarda solo i vecchi. Fu per
questo che quando seppi della morte di Mirella mi
trovai spiazzato, non tanto perché era morto
qualcuno in generale ma perché era morta una
ragazza. In seguito capii, grazie ai miei genitori,
che se lei non si fosse lasciata morire ora sarebbe
ancora viva, al pari di me.
Credo che le rincresciute attenzione dei genitori
del villaggio verso i loro figli erano alquanto
immotivate e insensate. Nessuno di noi ragazzi
voleva morire. Non sapevamo che cosa fosse la morte
e, di sicuro, non volevamo incontrarla. Io me la
immaginavo come un lungo corridoio bianco
dall'intonaco rovinato e cadente con un pavimento di
basalto nero, molto lucido, quasi accecante. Colui
che moriva, secondo le mie congetture, correva per
quel corridoio che era molto lungo e al fondo del
quale io riuscivo a intravedere solo buio e
oscurità. Non so esattamente cosa ci sia al di là di
quel corridoio kilometrico. Credo che lo scoprirò
quando sarà la mia ora. Non ora, dunque.
Ai funerali di Mirella gli adulti del mio paese
decisero che tutti i bambini avrebbero occupato le
prime tre panche al lato destro dell'abside. Andavo
tutte le domeniche a messa assieme ai miei genitori
per cui conoscevo bene le varie parti della
celebrazione ma, quel giorno, mi resi conto di
alcune variazioni durante la funzione. Il parroco
parlò utilizzando un linguaggio semplice e ritmato,
come per rendere le sue parole più facilmente
comprensibili a noi bambini. Parlò dell'insorgenza
del male e di quanto fosse insidioso. Pregò per
Mirella e chiese a noi fedeli di fare lo stesso. La
famiglia Giovanardi, che occupava la prima panca di
fronte a noi bambini era particolarmente addolorata.
La madre si rifiutava di alzarsi in piedi dalla
panca nei momenti in cui era richiesto dalla
celebrazione della messa e teneva un fazzoletto di
stoffa blu in mano con il quale a volte si asciugava
le lacrime e altre volte lo passava sulla fronte. Il
padre, vestito in maniera molto distinta, era
occupato tra il badare l'anziana madre e consolare,
a turno, le sue due figlie. La bara di legno bianco
posta dinanzi a loro, contenente il corpo della
povera Mirella, completava l'unità familiare dei
Giovanardi.
Durante la cerimonia alcuni dei bambini si misero a
piangere e chiesero ai loro genitori di poter andare
a sedersi vicino a loro. Alcuni glie lo permisero.
Io non piansi ma mi limitai a seguire le varie
procedure del sacerdote e le sue prediche e
suppliche sebbene non riuscii a comprendere
completamente i suoi discorsi, carichi di nomi di
Santi e riferimenti a Dio.
Nel periodo successivo alla tragica morte di Mirella
nessuna persona della città ebbe l'occasione di
parlare con la famiglia che, si chiuse nel suo
dolore. Le due sorelle di Mirella vennero ritirate
dalla scuola per un tempo indeterminato ed entrambi
i genitori presero un periodo di allontanamento dal
lavoro. L'unico che poté parlare con la famiglia e
trasmettere il dolore e la vicinanza di tutta la
comunità fu il sacerdote il quale, come scopersi in
seguito, avrebbe dovuto rifiutarsi di celebrare la
funzione religiosa in quanto Mirella si era
suicidata e la Chiesa disconosce il suicidio.
Scopersi anche che in occasioni simili la causa del
decesso veniva taciuta alla Chiesa o modificata
rispetto alla verità dei fatti.
Solo alcune settimane più tardi i vari giornalai,
consapevoli di aver tributato il giusto rispetto
verso la famiglia Giovanardi con le loro locandine,
decisero di toglierle e di rimpiazzarle con le varie
notizie locali di scarso interesse. I Giovanardi
presero a farsi portare la spesa quotidianamente da
una loro vicina di casa fidata. Il giardino
antistante alla loro casa piombò in un lungo
percorso di metamorfosi che lo portò a un completo
degrado e confusione resa dalla crescita smisurata e
irregolare di arbusti, dall'alta erba giallognola e
dal fatto che divenne il rifugio prediletto di varie
bestie randagie. Quando ritornammo a scuola la
maestra ci fece fare un tema su quanto era accaduto.
In quell'occasione, qualche bambina piagnona, pensò
che fosse opportuno far scendere altre lacrime.
Scrissi due facciate e mezzo. Si trattava del tema
più lungo che avevo mai fatto. Fuori, alla fabbrica,
gli operai continuavano a preparare imballi e pedane
di legno. Consegnai il mio tema mentre la maestra
cercava di tranquillizzare la compagna di banco di
Mirella che stava piangendo.
|
|
|