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Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a chiunque voglia
inviare testi poetici inediti, in lingua diversa
dall'italiano, purché rispettino i più
elementari principi morali e di decenza...
poesie di Lucia
Dragotescu, Andrea
Fontana, Manuela
Leahu
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autunnale
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Siamo tutti a casa di Flavio,
stasera, a festeggiare non so cosa, forse solo per
fare confusione, intorno ad un tavolo imbandito di
droghe psichedeliche e nulla più. Insomma, siamo
ospiti a casa sua solo per uno stupidissimo
pretesto, che non è lo stare assieme facendo della
casa uno scoppio di vino e di risate, ma per una
scusa qualunque: massacrarci sino all'impossibile,
annacquare il cervello sino a mandarlo in tilt. Sì,
certo, avete capito benissimo; solo un pretesto per
annullarci a vicenda e nulla più, al solo
presupposto di non pensare, dando sfogo al nostro
motto: fare del cervello una polpetta e abolire ogni
forma di pensiero! Ma che scemo, scusate, non mi
sono presentato: salve a tutti, comunque, sono
Angelo - di nome ma non di fatto, s'intende -
fiorentino da settemila e non so quante generazioni,
centralinista per vocazione e vivente per mestiere.
Il teatro della nostra strapazzata esistenza, quasi
si trattasse di un circo qualunque, è Firenze, città
in cui vivo, scena madre di questo mio scandaloso e
incerto racconto.
Insomma, dicevo, che sono a casa di Flavio, la
nostra tana dei giorni pari e di quelli dispari,
nella quale ci raduniamo a seconda del caso a decine
e decine solo per drogarsi. Acidi, eroina, cocaina
crescono su questo tavolo di salotto - di una
piccola casa borghese, di quelle tipiche abitazioni
dalle quali è facile uscirne schizofrenico- come
grappoli d'uva nella vigna. Ogni volta che veniamo
qua, previa telefonata col cellulare a Flavio per
invitarci, io, Germano, Alvaro, Pinco - Pallino, i'bischero
e altri ci massacriamo e basta, tanto che persino le
puttane in nostra compagnia, pagate regolarmente,
fanno solo le comparse da come siamo ridotti bene,
al punto di prestare la presenza in questo dannato
film da un'unica e infinita sequenza. Stasera, oltre
ad essere i soliti, oltre a massacrarci, oltre ad
essere in compagnia di signorinelle pallide e
vogliose, abbiamo un particolare in più da
aggiungere alla nostra sequenza. I'bischero,
lavorando per un antiquario di Borgo degli Albizzi,
è riuscito a rubare, non so come, non me lo chiedete
perché non saprei rispondervi, una enorme
acquasantiera di una cappella medicea della Val D'Orcia,
che abbiamo provveduto a riempirla di vino e a berci
dentro prima di metterci i piedi a sguazzo, per poi
farceli leccare da Arianna, Alina, Paola e Mara, le
nostre accompagnatrici. E questa è la novità! Per il
resto tutto ok, o meglio la solita e psichedelica
trippa! Siamo qui e vi sto parlando, quasi recitassi
una parte che qualcuno mi ha imposto, come fossi una
marionetta da circo siciliano, carico d'ogni ben di
Dio e con i piedi a mollo. Perché non usciamo?
Perché non andiamo per le strade, mi chiedete? E
perché dovremmo farlo, quando il fuori, Firenze
stessa, in questi giorni nei quali corre l'anno
duemila…, non è altro che la proiezione del dentro.
Le strade, i'chiassi, l'Arno stesso oramai sono un
circo e anche il mondo è la stessa, medesima cosa;
un circo a cielo aperto: dove acrobati,
intellettuali ridotti a scriverci SMS a noi poveri
psichedelici sparsi agli angoli delle strade,
recitano la solita parte, oramai da decenni. Sì,
miei cari ascoltatori: la stessa, medesima recita da
anni. E pensare che non abbiamo neppure un teatrante
o un cineasta che ne prenda parte, che la scriva, la
determini in un certo modo: è la pura realtà. Ormai
il confine tra fantascienza e realtà, tra magia e
finzione, tra gioco e dramma non esiste più: tutto
si confonde da tempo, da innumerevoli anni. Non
sappiamo più comunicare per iscritto, forse neppure
a parole, se non quando rutteggiamo dopo aver
divorato decine di birre, e gli unici che sanno
scrivere e parlare, vale a dire coloro che una volta
erano gli intellettuali; acrobati di parole consuete
ed extra, adesso sono scribacchini di SMS, dei
nostri messaggi che vogliamo spedire e che per
poterli sputare sul display dobbiamo fare la fila,
chilometrica. Gli scribacchini, essendo loro
disoccupati da anni, perché nessuno prende più in
considerazione le loro opere di sapienza, le loro
rime cavalleresche, scritte con la penna e talvolta
con le unghie, ora compongono i nostri SMS, i nostri
poemetti sputati sul display, che si limitano a
dire: tra 8 giorni ti xdono, cmque tutto ok… ci
becchiamo al bar … snack! Questi sono i loro poemi,
cioè quelli che una volta erano i loro poemi, e che
oggi sono i nostri, nonché un triste concentrato di
sterilità permanente e psico-disco inquinante,
concentrato di coincidenze sul binario interminabile
del satellite. Sono loro che ci scrivono queste
quattro parole. E li vedi là, agli angoli delle
strade, lungo Por Santa Maria, lungo Via Calzatoli,
Piazza della Repubblica, chiasso del Limbo, fino a
Costa San Giorgio e oltre, con pochi stracci
addosso, dietro un pancale sorretto da due caprette,
e una immensa fila davanti. Alla fine, a sera
inoltrata, dopo aver incassato qualche centesimo,
spariscono e diventano come le mosche bianche, tra i
vicoli che dal centro scendono verso l'Arno. La sera
cade sui loro quattro stracci, sulle loro parole
bestemmiate e sulle nostre psichedeliche frenesie, i
nostri entusiasmi, quasi senza accorgersene, ed è
allora che spariscono per lasciare la Firenze teatro
ad un altro spettacolo: quello notturno, fatto di
cervelli spappolati e birre, marocchini fumanti e
Dio senza patria né cielo. Sì insomma, termina uno
spettacolo indecente e riapre il sipario per quello
successivo. L'epilogo termina dove inizia il prologo
e viceversa. Sono scomparsi i giornali, ma sono
presenti le mode, sono scomparsi i libri, ma sono
presenti i pasticconi tutto dire. Per tenerci il
cervello attivo, già dalle prime ore del mattino,
birrai minacciosi e puscher ci regalano birre e
fluidi spazzatutto e così siamo felici. A tutti è
imposto di bere e di farsi, solo agli scribacchini
no! Loro non possono assolutamente deglutire niente
di questa roba, altrimenti si può correre il rischio
che gli SMS, l'email e roba varia vadano a farsi
friggere. Proprio ieri ho dovuto - e non vi nascondo
che gli ho mollato un cazzotto e lui per difendersi
mi ha morso il polso fino al sangue - litigare con
uno dei tanti, solo perché arrivato il mio turno,
col mio cellulare in mano, si è messo a bere,
allorché l'ho dovuto fermare, dirgli: "deficiente,
molla la bottiglia, lo sai che non ti è permesso di
bere, eppure lo sai". Ma lui niente e così… Ma poi,
loro hanno il latte che lo stato gli passa, e loro,
sottolineo loro, debbono accontentarsi di quello e
non altro. Noi stessi siamo al mattino, quasi
all'alba, i loro lattai. Lasciamo una bottiglia
davanti al loro portone e poi scappiamo, così quando
si svegliano sanno già cosa fare. Escano di casa con
il pancale e le due caprette e si dirigano sul posto
di lavoro, con tanto di museruola, perché se parlano
magari sotto ispirazione non sanno poi cosa
scrivere, e con tanto di guinzaglio invisibile che,
il sindaco, o qualcuno controlla se ben allacciato
al collo. Solo a noi, a noi tutti, dalla a alla z è
permesso di divertirci, di lavorare, di ballare e di
andare in giro per Firenze a grogiolarsi nella
autentica felicità condizionata che qualcuno ci ha
imposto. Addirittura, ma non vorrei sbagliarmi, la
felicità condizionata la possiamo regolare, a
seconda del clima, a seconda dei giorni o delle
stagioni, con dei telecomandi che ciascuno di noi ha
in dotazione. Solo loro, gli scribacchini, non lo
detengono e per una semplice ragione: non hanno
diritto alla felicità, in quanto sanno scrivere e
leggere, comunicare e nulla più. Solo che non riesco
a capire se le marionette sono loro o siamo noi.
Stasera, dicevo poco prima, è una delle tante
tipiche nostre serate. Siamo in compagnia di belle
donne, come disse il poeta di pubbliche mogli, c'è
il vino, la birra e poi le sostanze psichedeliche.
Abbiamo i piedi a bagno nel vino nelle acquasantiere
ma non la forza di alzare un dito. Ma quando finirà
questa storia, quando? Non lo sappiamo. Ci
ritireremo a letto come insetti da fare invidia ad
etnologi esperti, solo quando non ne potremmo più e
tutto sarà finito; o meglio quando finirà questo
dramma carnevalesco in attesa del prossimo prologo,
che, come i sogni migliori, affiorerà alle prime
luci dell'alba. L'aurora ci avvolgerà come la
nostalgia e così ricominceremo a vivere, a soffrire,
o meglio a sopravvivere e a non soffrire, essendo
non più capaci di provare sentimenti umani. Paola,
ad esempio, da tempo ha cancellato dal suo
vocabolario la parola amore, e come lei le altre,
sostituendola con la linea del telefono caldo, anzi
bollente, il cui scopo e fare l'amore con se stessi,
essendo vietato farlo con gli altri, con il
prossimo, dando sfogo a quella spiritualità da
mammiferi.
Firenze, poi, come vi dicevo è oramai un teatro, una
illusione, un gioco di specchi e riflessi, sulla cui
superficie intere famiglie di ragni hanno tessuto
trame infinite di ragnatele. E pensare che gli unici
specchi ai quali ci è permesso specchiarsi, sono i
display dei nostri cellulari! Vorrei solo sapere
quando finirà questa storia! Solo questo. Ma mi
rendo conto che a terminarla sarà solo il volere di
un certo Lombardi, di un saccente e inutile
scribacchino psicopatico, che, avendo le nostri
sorti in pugno, ci guida sino alla follia più
latente. Allora, Lombardi quando decreti la fine di
questo dramma? Quando, si può sapere? Ne abbiamo
gonfie le scatole delle tue allegorie del piffero!
Ora basta!
Allora mi risponde che non ha più voglia di portare
avanti questa commedia, che è stanco e che vuole
abbassare il sipario e decretare la nostra morte. Ci
invita a svuotare le acquasantiere, a riporle nel
luogo loro prestabilito da duemila anni di
cristianesimo, di riaccompagnare a casa le dame in
nostra compagnia e di morire, di ammainarci su noi
stessi e di addormentarci. E così noi facciamo, come
fossimo barche alla deriva, all'ombra minacciosa del
sipario che con violenza ci fa da sepoltura.
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